A cena con The Niro: tra biberon e pannolini, la mia chiacchierata con Davide Combusti, in arte The Niro, il prodotto d’esportazione che tutti ci invidiano, l’artista che in questo momento è il vanto del Made in Italy musicale. È una sensazione strana avere a che fare con Davide, per certi versi dà l’idea di essere un distaccato sognatore che si appoggia sulla realtà circostante, dall’altra, non appena si entra in confidenza, ci si rende subito conto che è un ragazzo tranquillo, con una innata attitudine allo scherzo, con la prerogativa del “doppio senso”, con la battuta arguta sempre pronta, e un background romano doc ben nascosto dietro l’aspetto un po’ british che lo contraddistingue. The Niro vanta già, a 36 anni, un percorso invidiabile, una serie di esperienze e collaborazioni che solo i grandi della musica possono raccontare, e ben 5 dischi all’attivo, ma tutto questo non ha minimamente intaccato la sua modestia nel rapportarsi e nel raccontarsi. A noi di Qube Music ha rilasciato – timidamente – questa intervista (in vino veritas):
– Fai una panoramica della tua carriera: quali sono le cose che ricordi con più affetto? E cosa ti manca?
Facciamo questa panoramica della mia carriera tornando indietro. Mah, le cose che mi ricordo con più affetto sicuramente sono legate al prima del primo album quando, con chitarra classica e voce aprii il concerto dei Deep Purple, per esempio fu un’esperienza molto forte, forse in quel momento mi resi conto che comunque potevo non avere timore… insomma potevo portare la mia musica in qualunque parco, quindi quello è stato il momento in cui mi resi conto che sarei riuscito forse a vivere di musica, perché comunque ero totalmente incosciente. Poi quando firmai il contratto con la Universal, fu un giorno molto importante perché comunque lì fu sancito il fatto che potevo dire che fare il musicista è un lavoro! (Ride). E fu un momento molto bello, tra l’altro aprii il concerto di Amy Winehouse quel giorno stesso quindi fu una giornata, il 26 ottobre del 2007, che ricordo con molto piacere.
Cosa mi manca? In realtà niente perché ho sempre portato avanti la musica in modo molto puro quindi ho cercato di realizzare quello che avevo in testa; fortunatamente nessuno mi ha messo i bastoni tra le ruote, quindi anche all’interno della stessa etichetta discografica ero considerato una sorta di mosca bianca perché la stessa etichetta ammise di non avere avuto ingerenze nei miei confronti e posso confermare che tutto quello che poi è uscito era frutto del mio delirio mentale. (Ride)”
– “1969” in inglese: perché? Pentito di aver scritto in italiano?
“1969” mi è stato chiesto dall’etichetta che detiene le edizioni per lanciarla sul mercato americano e quindi per questo motivo in questi giorni la sto ricantando in inglese. In verità 8 brani su 11 erano già nati in inglese e quindi non è stato un grande sforzo per me ricantarli e non sono assolutamente pentito di aver scritto un album in italiano anzi, era mia volontà, nessuno mi ha spinto a farlo. Prima o poi l’avrei voluto fare quindi ho pensato che al quarto album cantare un disco in italiano non sarebbe sembrato furbo, anche perché in Italia i dischi non si vendono quindi è stato un mio capriccio (Ride), mi sono voluto togliere questa soddisfazione e sono molto contento del risultato. Lo ascolto spesso e ormai non avverto una particolare differenza tra i brani in italiano e quelli in inglese. Detto ciò il prossimo sarà in inglese!
– A cosa stai attualmente lavorando?
Sto lavorando al prossimo album e sarà un disco un diverso rispetto ai precedenti, la batteria sarà meno presente, e sarà un po’ più acustico. Penso che il 2016 sarà l’anno giusto. Io faccio uscire i dischi solo gli anni pari: 2008, 2010, 2012, 2014…
– Se dovessi/potessi scegliere… Italia o estero?
Sceglierei Marte, perché è un mercato nuovo e almeno lì i dischi si comprano (Ride). No, Italia o estero? Boh? Non lo so… io ho sempre pensato che l’Italia è all’estero. Io in generale non faccio differenze però l’autunno mi porterà di nuovo all’estero in un tour in Gran Bretagna, stiamo lavorando anche a delle date in centro Europa.
– I tuoi testi sono molto introspettivi e ti dipingono come un poeta in epoca moderna, ti riconosci in questa cosa?
Questa definizione mi lusinga e mi fa piacere, però non saprei…
– Rispetto ai cantautori di questo momento che stanno lì a parlare del disagio e della lotta sociale, sei una voce fuori dal coro, no?
Sì, anche se mi interesso al sociale non riesco a inserire tematiche sociali all’interno dei miei testi. Parlo molto di me perché ho l’impressione che in molti cavalchino questa cosa per convenienza, quindi ci tengo a restare fuori da questi aspetti.
– Tempo fa mi hai detto che, per essere felice, ti basterebbe suonare “Pindaro”. È così?
Pindaro mi riporta in un periodo dell’adolescenza in cui sbagliare non provocava particolari danni. Ho avuto dei momenti di spensieratezza che oggi mi mancano. Pindaro funge da album dei ricordi di quel periodo.
– Pindaro è il brano a cui sei più legato?
Sono legato a tutti i brani che ho scritto, anche quelli che mi ricordano momenti che avrei voluto dimenticare.
– Se non avessi fatto il musicista, dove pensi che saresti adesso?
Probabilmente nel pieno di una sceneggiatura fuori di testa.
– L’amore per la musica e l’amore per una donna come si conciliano? A cosa non puoi rinunciare?
Si conciliano solo se la persona che hai accanto non soffre per il tuo lato creativo. Altrimenti sono guai. Di positivo c’è che l’amore, come il dolore, regala sempre ispirazione.
Flavia Elisabetta Munafò