Un insolito pomeriggio invernale stranamente caldo, una piazzetta di Lanciano, un caffè e tanto “Alcol, Schifo e Nostalgia”: Ivo Bucci dei Voina ci ha raccontato la genesi del nuovo lavoro. La nostra discussione ha toccato anche tanti temi caldi, dalla mancanza di una cultura del live alla filosofia dello “schifo” portata avanti dal gruppo in questi anni.
L’intervista che vi proponiamo oggi parte da lontano, precisamente da un concerto dei Ministri aperto dai Voina a Tipografia (Pescara). In quell’occasione io e il mio gruppo di amici, ci siamo fermati a parlare con Ivo giusto per fare una chiacchierata, vista la nostra provenienza c’eravamo ripromessi un incontro davanti ad un dolce tipico che fanno nel nostro paese, Guardiagrele, chiamato le Sise Delle Monache e allora grazie alla consegna del disco, lo scorso venerdì ci siamo finalmente incontrati dedicandoci a ciò che sappiamo fare meglio: mangiare, dire cazzate e parlare di musica.
Ecco a voi i Voina cresciuti e pronti per spaccare tutto ciò che troveranno sul loro cammino, senza filtri né inganni.
– Che cos’è cambiato dal vostro primo album? In che modo questa volta avete organizzato il lavoro?
Il primo disco è stato un disco lavorato, senza fretta e nessuna pressione. Oggi abbiamo una piccola fan base, che dalla fine del tour chiedeva continuamente pezzi nuovi. Il primo disco è stato fatto con calma, con diecimila ore di prove, questo è stato fatto più velocemente grazie agli input ricevuti nell’ultimo anno. Il disco è molto ispirato perchè abbiamo conosciuto nuove persone, la costruzione dei pezzi tra primo e secondo album è stata simile: noi creiamo il suono in studio con registrazioni e idee, suonando continuamente, poi scelta una linea, con il mio lavoro sui testi a casa, si costruisce il disco. In questo secondo album nonostante il lavoro sia stato sommariamente lo stesso, il risultato è completamente diverso dal lavoro d’esordio.
– Cos’è quel non so che di cui parlate nel vostro primo singolo del disco e cosa pensate veramente di tutta questa subcultura giovanile che voi accusate?
Io non ho quel non so. che è stata ispirata da una frase di Kurt Cobain: personalmente ho letto qualsiasi cosa ha scritto, anche i bigliettini per andare al bagno. In una sua frase scrisse: “Sono il peggiore in quel che faccio meglio”, che è una cosa di una bellezza atomica: mi è piaciuto partire da questo perché oggi c’è l’idea di apparire sempre perfetti, dai filtri di instagram alle foto, ai selfie del cazzo. Tutto questo è ridicolo perché, quando si cerca di mettere fuori il meglio di se, è lì che viene fuori la nostra parte più vuota.
Il concetto di schifo, che sosteniamo da sempre, nasce da questo perché viene fuori proprio la parte che non ti ha alcun filtro di Instagram, se viene fuori la parte di te che si ubriaca, marcia, che fa cose assurde è quello che ti rende speciale, non dei cazzo di pregi finti.
– Qual è La cosa più bella che vi è successa durante lo scorso tour?
La cosa più bella in assoluto è quando da sotto il palco cominciano a cantare le tue canzoni: i tour delle band piccole, come la nostra, sono pieni di cose strane, dove si arriva non si sa dove e ci si trova dentro a posti scandalosi, con dentro pochissime persone. A Foggia ad esempio, abbiamo suonato davanti a tre persone che stavano strafatte, e veramente ho pensato di non suonare mai più dopo quella sera, oppure ti capita di aprire ai Punkreas e si suona davanti a 1000 e più persone. La risposta delle persone sotto al palco è quella che ti rende più felice: quando alla fine di un concerto ti dicono che il tuo pezzo è servito per svoltare la vita e magari mandare via una ex, insomma la sensazione è indescrivibile. Se entri in contatto con una persona è bellissimo perché durante il concerto ci si urla addosso a vicenda, tutto rimbalza poi nel live.
– I vostri pezzi sembrano un insulto velato ad uno stile di vita molto pop oggi, che rapporto avete con gli insulti e che rapporto hanno gli insulti con la vostra musica?
Il nostro rapporto con l’insulto è altissimo. Il grande vantaggio di fare arte o scrivere pezzi è quello di avere un megafono, qualcuno sempre ascolterà quello che fai. Se tu sei incazzato, è perfetto se te la prendi da solo a casa, non si è pienamente felici, se tu canalizzi la rabbia nelle canzoni e l’insulto davanti a 100 persone tutto viene amplificato rendendolo un momento di vera felicità.
– La sensazione sentendo il nuovo disco è quella di assistere ad un salto di qualità enorme, in particolare nella produzione dei brani, quali sono stati i punti su cui avete insistito e c’è qualcosa che dello scorso album vi aveva deluso?
Negli arrangiamenti abbiamo avuto un miglioramento, ma è stata una crescita automatica, perché in un anno siamo cresciuti più che nei precedenti dieci. Il pezzo deve suonare in studio come in un live, non metto una tromba se non posso usarla in concerto. Nella produzione è cambiato anche qualcosa: nel primo disco ci siamo messi in mano ad un grande professionista come Fusaroli, però avevamo la voglia di fare tutto molto da soli, qualcosa di nostro. Il limite in questo concetto è il non sapere fino alla fine come andrà il disco, non c’è un ascolto attento da parte di un produttore. Noi avevamo deciso di fare un lavoro propriamente nostro, con l’dea che se faceva schifo sarebbe stata colpa solamente nostra. E fa schifo. Però il vantaggio è che è assolutamente nostro.
– Quanto servono, nel vostro ambiente, premi come quello che vi hanno dato al MEI?
Un pochino sono fini a se stessi, cioè alla fine anche un Grammy Award in fin dei conti te lo metti nel c**o, Eddie Vedder alla fine ha espresso già al meglio questo concetto: “Dare premi per l’arte è una delle cose più stupide che si possano fare sul pianeta terra”. Noi comunque abbiamo apprezzato molto, e ringraziamo i ragazzi del MEI perché hanno apprezzato la nostra tipologia di fare musica, molto anni ’90.
Non vogliamo pagare un grosso nome per fare un featuring, realizzare una clip con un regista assurdo per esporci o andare in televisione. Noi ci siamo diffusi tra le persone e per questo ringrazio il MEI che ha premiato la nostra capacità di creare una fan base che si è stretta intorno a noi.
– L’ultima domanda non può non toccare un tema fondamentale per l’Abruzzo e non solo, alcuni giorni fa è stato chiuso Tipografia, storico locale pescarese che ha sempre diffuso un certo tipo di cultura di live: come possiamo fare clubbing e promuovere musica dal vivo in Abruzzo e nel sud Italia?
Le difficoltà sono tante, il nostro manager ha organizzato tante date al Tipografia e ho vissuto da dentro questi problemi. Il primo grattacapo è la mancanza di una cultura, non di una cultura con la C maiuscola, ma di cultura in senso generale. Fare un blitz a Tipografia ha un senso se veramente c’è un controllo a tappeto in ogni locale di tutto Abruzzo, perché la cocaina, e la droga in genere, sono ovunque, ed è abbastanza normale l’utilizzo di sostanze, in ogni ambiente. Il lavoro che fa Tipografia è difficilissimo e costosissimo, si fa sempre difficoltà a livello culturale in Abruzzo, ma in genere nel sud Italia, probabilmente perché siamo troppo legati ad ambienti provinciali.
Manca un senso del live da queste parti, quando noi abbiamo suonato a Londra grazie ad un contest vinto a Guardiagrele, la gente ha pagato cinque pound per entrare in un locale a Camden pur non conoscendo minimamente chi eravamo.
La questione è culturale: se in Italia, in particolare al sud, si suona in live per le piazze, ci sono solo molti problemi. Le grandi città fortunatamente si svincolano da questi concetti un pochino provinciali. L’aiuto che si deve dare è rendere facile l’organizzazione dei concerti, le amministrazioni devono permettere le serate anche se qualcuno sempre deve protestare, anche d’estate. Ogni città dovrebbe avere una piccola scena, anche se ora va un altro tipo di musica, la cultura della musica live va aiutata con politiche concrete, come non far pagare la SIAE ai locali da parte dei sindaci e amministratori.
Bisogna aiutare l’aggregazione giovanile in locali dove non si suona techno e non si prendono le pasticche: farsi una canna davanti ai Pink Floyd è diverso dal prendersi un acido dentro una discoteca. Le istituzioni non possono bastonarti ogni volta che si fa musica con multe e sanzioni varie, perché i locali alla lunga ci rimettono e non permettono più di suonare. Bisogna ridare un valore culturale complessivo alla musica dal vivo.
Gianluigi Marsibilio