Una lunga chiacchierata. La possibilità di scoprire chi c’è dietro un Icon-man, per citare il titolo di uno dei suoi brani più recenti. E che non senza ironia, è servito allo scopo: quello di giocare con se stessi, con una fase della propria vita, e soprattutto con uno stereotipo del mondo dello spettacolo. Il nome è quello che lo ha reso noto negli anni Ottanta-Novanta, sempre lo stesso, almeno ad orecchio: Scialpi o Shalpy, un espediente che foneticamente protegge la propria identità anche Oltreoceano senza farla stroppiare dalla pronuncia anglosassone. Un’identità che non si rinnega ma che si trasforma, che evolve, pur rimanendo in sostanza sempre la stessa. Per lui le fan impazzivano, bello dal look “alternativo” – il primo a presentarsi con i jeans strappati sulle ginocchia e le gambe; lanciato da Franco Migliacci, si attesta presto come appunto una della “icone” del panorama del cantautorato italiano anni Ottanta, un pop-romantico con alcuni brani indimenticati, come L’io e l’es, firmato da Mango, o Cigarettes and Coffee, Pregherei con Scarlett Von Wollenmann, o Rocking Rolling, che segna il fortunato esordio di Giovanni Scialpi, nell’83. Di tempo ne è passato. E dopo un periodo defilato dai riflettori, l’artista emiliano, passato attraverso tv e teatro, torna alla musica con dei nuovi brani, un nuovo look, una nuova ispirazione.
– Quindi possiamo chiederlo: Giovanni, chi sei oggi?
Sono quello che prima si vedeva meno ed oggi si vede di più. A livello introspettivo mi conosco: ho fatto un lavoro su me stesso che, anche grazie al mio carattere, mi ha portato ad essere veramente libero, tra mente e cuore.
– E artisticamente chi è oggi Shalpy? C’è molta differenza tra il melodico cantautore di ieri e il “cantante-attore” del techno e dance-pop di oggi.
Mi sono preso la soddisfazione di cantare in inglese, la libertà di usare lo schema che voglio. Cigarettes and Coffee, con la quale ho esordito, l’avevo scritta in inglese ed era un pochino più d’amore. È stato Franco (Migliacci) che poi, giustamente, l’ha tradotta, riscuotendo il successo che ha avuto. Ma io ero fissato; per me “compattarmi” per essere capito in Italia, è stato un grosso sacrificio, durato 25 anni. Con soddisfazioni sicuramente!
– Cosa è rimasto dello Scialpi originario?
Ascoltando Come to me, c’è un motivo di base, che ti porta indietro: è una canzone che avrebbe potuto cantare Seal all’epoca. Quel background fa parte di te, non ti lascia, ti sembra così cambiato ma è solo rimodulato. Oggi valuto la situazione istintivamente, faccio canzoni di vario tipo: nel mio intimo l’ispirazione è l’ispirazione. Ma mi sono emancipato e già da Pregherei mi produco da solo. E questo mi impone una visione diversa da quella del cantante/cantautore. Quella del produttore è una diversa costruzione mentale. E pur nel rispetto dell’ispirazione e dell’interpretazione, faccio una serie di valutazioni per creare una canzone che abbia una finalità.
– Ora, musicalmente dove sei, qual è l’ispirazione attuale?
Diciamo mitteleuropea. Cigarettes and Coffee è una cosa pura, diversa da Come to me o Music is mine – che di questi singoli è la mia preferita; l’ho lasciata libera da sovrastrutture. Sul web ha fatto 70mila visualizzazioni, quando è stata lanciata su La repubblica.it, dopo le 15 mila raccolte al lancio precedente con Tg com. In pochi giorni.
– E quali sono state le reazioni a questo ritorno?
Qualcuno si è chiesto: “Chi ha ristampato la faccia di Scialpi su Shalpy!” Stentano a credere che io possa avere questa freschezza, che non sta nella faccia, ma negli occhi. Con Icon-man, dove peraltro uso un inglese caricaturale, sfumatura che non è stata colta del tutto, sono stato sbeffeggiato da persone del mio ambiente. Mi ha fatto molto male vedere alcuni vecchi conoscenti o colleghi, consigliare sarcasticamente e ripetutamente, via Twitter soprattutto, di “non perdere l’ultimo video di Shalpy”. Ma io vado oltre.
– E le fan, invece, come ti hanno accolto?
Perplesse! Quando sono uscito c’è stato un certo sconvolgimento. Diciamo che c’è del romanticismo, una sorta di nostalgia: molte mi hanno detto di preferire lo Scialpi italiano e che anche se le canzoni sono belle, preferiscono quelle “di una volta”. D’altronde c’è una evoluzione, del personaggio, della musica, e un’azione mediatica la devi fare. Ho dissacrato un mito ma per costruirmene uno nuovo, quello di oggi. A me non viene più dato del “vecchio”. Preferisco essere un artista emergente oggi, che una icona di ieri.
– Cosa vedi di diverso da allora, nell’ambiente, nel clima?
Prima era il pubblico a decretare il successo di un artista; oggi non è più in grado perché con i mass media, con veicoli diversi, il pubblico viene indotto, non è libero. Io sono entrato da sconosciuto ad una diretta tv, per cantare “Rockin rollin”; sono uscito ed ero Scialpi. Sul pezzo la platea ha esultato. Ma quando siamo usciti, c’erano le transenne e una massa di persone acclamanti! Migliacci non se ne era neanche accorto, mi invitava a sbrigarmi per andare in albergo e io risposi di aver paura! È stato come entrare nel tunnel del Colosseo: incredibile! Sono stato travolto dai fan, spinto contro un muro con le mani ovunque; lui che si è accorto solo più tardi della situazione, mi è venuto incontro e ci ha rimesso mezzo dente! Lì capisci che è bastato un attimo, che il pubblico ha deciso: “Questo mi piace”.
– Con Icon-Man, dicembre 2012, il pubblico italiano si è diviso; invece hai avuto un’ottima accoglienza negli Stati Uniti e in Canada. Come sei arrivato a quel pubblico?
Intanto, a Toronto c’era il figlio di Jhonny Lombardi, il fondatore della Chin Radio; e ha trasmesso i miei brani. Poi sono andato spesso negli Stati Uniti, dove è più “easy”, funzionano con una forma mentis diversa rispetto all’Italia, anche commercialmente. Se piaci, piaci! Qui un fenomeno che piace diventa virale, lì è normale: se ti piace un pezzo messo in rete, lo clicchi. Qui hai delle resistenze a dare il tuo “click” e, se non sei proprio convinto, un pezzo non lo fai diventare virale. Di chance in Italia ne abbiamo pochissime.
– Una chance oggi è il talent show, per emergenti e “famosi”. Vorresti partecipare?
Migliacci mi ha sempre insegnato che un artista non deve giudicare un altro artista. Sono nato e cresciuto con questa etica. E occorre fare una differenza: non farei “Amici”, perché il ruolo lì è quello di giudici; diversamente farei X Factor, perché si tratta di una formazione che ti porta ad un risultato e ti da una soddisfazione anche personale.
– Hai dichiarato di non amare molto i talent, ma hai voluto Maria Villalòn, vincitrice di un X Factor spagnolo, per il tuo video. Quindi il talent un suo buon effetto lo ha?
Direi! Penso a Mengoni, per esempio: un talento strepitoso. Se devo fare X Factor e mi trovo un giovane come lui, appunto, per contribuire a farlo diventare un grande, ho la stessa soddisfazione che si prendono i produttori, un mestiere che mi piace e piacerebbe fare. Ma se si tratta solo di giudicare e spingere un pulsante, non mi interessa.
– E la tua di carriera, come ha preso il via?
Sono partito da casa facendo il geometra, lavorando in un bar per fare dei soldini, ed essere più autonomo. Lavoravo fino all’una di notte e mio papà, poliziotto, mi chiudeva fuori casa. Mi ritrovavo alle due, tre del mattino a girare per Parma con la nebbia e puntualmente incontravo i suoi colleghi che mi fermavano e, saputo che ero figlio di un collega, mi riportavano a casa e alla fine mio padre mi faceva salire e riuscivo a dormire. Altre volte, per fortuna, mi appoggiavo nella sala giochi di un amico: aveva una stanzetta con un lettino. Ovviamente tutto a piedi. Per cui i miei inizi non sono stati da proprio da principino. Nel frattempo coltivavo la mia creatività: andavo a Radio Parma a registrare dei jingles con Mario Coluzzi, che era uno speaker, e a cantare le mie canzoni.
– Allora eri un sedicenne. Quali sono stati i tuoi punti e le persone di riferimento? Quando sei arrivato a Roma, per esempio Franco ?
Sì e lo è ancora, mi sento con tutta la famiglia. E poi, direi alcuni valori che mio padre, senza accorgersene, mi ha trasmesso. Pur essendo cresciuto logisticamente solo: lui poliziotto, è stato trasferito negli anni dell’infanzia; poi l’adolescenza, età terribile della crescita, quando spacchi e ricostruisci tutto. Mamma lavorava. A 16 anni ero già in movimento, emancipato, cercavo di scendere a Roma con la mia paghetta. Quindi il mio papà me lo sono ritrovato da adulto, vecchietto. All’inizio della mia carriera lui che ci andava sempre, smise di andare al barino, perché si vergognava un po’ di me: era un uomo semplice, io con i jeans strappati e un look un po’ trasgressivo. Poi dopo 4, 5 trasmissioni alle quali ho partecipato, ha ricominciato ad andarci ed da lì, è una soddisfazione, si è goduto questo successo. A me ha dato tanto: il rigore, l’avere sempre lo sguardo spostato un po’ più avanti, per scorgere un pericolo, la lungimiranza.
– Rimanendo sulla famiglia, un legame importante è ed è stato quello con tua madre, alla quale sei stato particolarmente vicino nell’affrontare l’Alzheimer.
Non sono all’estero, perché vivo e lavoro a Roma. E, sono qui perché ho una madre malata, anche se per me è morta 4 anni fa, quando mi ha riconosciuto l’ultima volta; è l’effetto della malattia. La vado a trovare abitualmente, e ogni volta torno a casa distrutto. Sono figlio unico e Io me la sono curata per un lungo periodo; la mia è una piccola famiglia e mia zia, per motivi personali, finché non riuscito a trovare a mia madre un buona sistemazione e assistenza tramite il Comune, non ha potuto partecipare molto. Quindi io ho vissuto tutta la sua malattia e posso assicurare che è difficile per un figlio accudire in tutto la madre, trovarti in doccia con lei facendo finta che sia un gioco: è come vederla da piccolina. Ancora mi commuovo… Devo dire è stato un periodo molto impegnativo e durante il quale non ho lavorato e fatto altro.
– C’è una canzone dove hai messo tutto questo?
Sì e paradossalmente prima, nel 2008, nella commedia musicale su Rodolfo Valentino: Madre mia. Rodolfo Valentino voleva rivedere la madre e non ci è riuscito. Ha fatto un viaggio di circa 25 giorni, ma lei è morta prima che arrivasse. È stata una cosa tragica. Io invece ho avuto la fortuna che mia madre, seppur malata, è riuscita a vedermi in scena ed e è stata una cosa molto bella. Il brutto è stato cantarla, sapendo lei in quelle condizioni: è riferita al personaggio sì, ma non riuscivo e non solo quella sera; ho dovuto fare un training intenso per cantarla, sono molto emotivo e sensibile. E, presuntuosamente sono diventato abbastanza bravo come attore da esserci riuscito, e riuscire oggi anche a piangere a comando, quindi a toccare quel tasto profondo capace di suscitare l’emozione vera.
– Com’è stata l’esperienza da Rodolfo Valentino e da attore?
Ho dato l’anima per interpretarlo. Mi piace tantissimo fare l’attore, ma trovo che innanzitutto si è bravi quando si è diretti da un bravo regista, come è stato per me Enrico La Manna. Ho studiato molto bene Valentino, documentandomi come un attore fa con un film; avevamo pochissime cose in comune, tranne una certa esuberanza, la bellezza, anche se lui era giovanissimo, non ha avuto il tempo di sviluppare una coscienza adulta. Enrico ha estrapolato certi miei atteggiamenti “fuori scena”, sul palco mentre mi riposavo, come accade durante un laboratorio dove tu diventi autore della tua istintività che il regista sa vedere; è stata una grande esperienza.
– Tu sei più attore o più cantante?
Più attore. Faccio il cantante che è un attore con un limite, che è la musica.
– Perché non continui?
Non ho progetti in questo senso, anche se, fossi nato ai tempi del neorealismo, negli anni 50/60 senza dubbio avrei detto che cantare è marginale, avrei voluto fare cinema. Oggi è un’altra cosa. In passato ho detto di no a Monicelli e anche a Nocita che mi avrebbe voluto in un suo progetto. Perché ho detto no? Perché ero uno stupido!
– Ora a cosa stai lavorando, cosa c’è in cantiere?
Uscirà un’idea di Greatest Hits alla quale stiamo lavorando. Intanto voglio fare un altro singolo in inglese in uscita ad aprile, della serie “Nuovo Scialpi”, se vogliamo definirlo così, con una dimensione diversa più leggera, più idonea anche a me stesso, poiché la mia drammaticità ed emotività ha traslocato, relegata o ad una sfera personale, o al teatro. E così, sono contento. Anche davanti agli ultimi eventi, penso a mamma, a Pino (Mango) recentemente scomparso… Viviamo in un mondo in cui non puoi pretendere più di tanto da te stesso e dalla vita. Io sono contento, tutto quello che ho fatto l’ho fatto in modo denso e intenso. Continuerò a farlo e la soddisfazione sarà alla fine: guardarsi indietro un attimo e poter dire “Bravo Giovanni!”. Con un sorriso.
Sara Cascelli