Ci sono album che sono un punto di riferimento per tantissime persone, album che hanno fatto la storia della musica italiana. Uno di questi è certamente “Il nostro caro angelo” di Lucio Battisti, che sarà oggetto della lezione tenuta oggi per la nostra scuola dai ragazzi de Lo Straniero, la band electro psych, che col suo omonimo album d’esordio sta facendo molto parlare di sé.
– Avete scelto di parlarci de “Il nostro caro angelo” di Lucio Battisti. Ricordate la prima volta che lo avete ascoltato?
Non ricordiamo il momento preciso perché Battisti fa parte del nostro immaginario da sempre. Quando eravamo bambini le sue canzoni suonavano in casa e sull’autoradio, in maniera diversa continuiamo ad ascoltarlo anche oggi.
– Chi è Lucio Battisti per voi?
Un artista completo, una voce vicina e definita, un precursore non elitario ma per quasi tutti.
– Cosa c’era di così magico nel rapporto tra Battisti e Mogol?
Le affinità elettive: magica è stata la capacità di completarsi. Un’alchimia che va ben oltre la mente e l’esecutore.
– In che modo hanno cambiato il modo di essere della musica italiana?
Battisti era oltre la tradizione. Era un ottimo chitarrista, aveva un timbro originale, c’erano parti di basso così efficaci e i sintetizzatori, la ricerca sul piano ritmico, tribalismi, rottura degli schemi. Mentre guardava agli Usa iniziò a sperimentare con strutture che superavano la forma canzone. Con quel Mogol la poetica era sempre ispirata.
– Come mai “Il nostro caro angelo” è il vostro disco di riferimento?
Perché amiamo i suoi anni settanta: questo disco è fra “Il mio canto libero” e “Anima Latina”, poi c’è “La batteria, il contrabbasso, eccetera”, ascolti indispensabili.
– È stato pubblicato nel settembre del 1973. Ci parlate del periodo storico-culturale in cui si colloca l’uscita del disco?
Dopo il rilancio degli anni Sessanta quello era un periodo controverso. Preannunciava tempi bui e il consumismo dilagante di lì a poco avrebbe trovato una prima crisi: la crescita e l’espansione del boom erano superate. Battisti pubblicava dei singoli da primo posto in classifica, ma questa volta non così afferrabili come la produzione degli anni precedenti.
– Cosa potete dirci a proposito della scelta del titolo di questo album?
C’è la parte più pura dell’essere umano, “…si ciba di radici, vive sotto gli alberi e schiavo non sarà mai”. È un angelo giovane, in carne ed ossa e probabilmente laico, che va oltre le imposizioni e i valori di una società costretta dal potere delle istituzioni sociali, politiche e religiose.
– La copertina del disco era abbastanza scandalosa per l’epoca. Come venne giustificata questa scelta?
Le figure sono un richiamo ai titoli e ai contenuti delle canzoni, esteticamente ha conservato un forte fascino.
– Quali sono i generi principali che vengono racchiusi nell’album?
Canzone d’autore, sprazzi di funky ed elettronica, sperimentale su più piani con canti primitivi e paesaggi meravigliosamente sfocati. Un singolo come “La collina dei ciliegi” dura cinque minuti, tempi impensabili per le attuali esigenze radiofoniche. Un pop senza perimetro.
– Ci sono anche tantissime sperimentazioni nel disco. Verso quali orizzonti cominciava a spingersi Battisti con questo lavoro?
Apriva la strada ad “Anima Latina”, non c’è altro da aggiungere.
– Qual è il brano più innovativo e perché?
È un disco da ascoltare in maniera integrale. Apparentemente meno immediato ma non meno affascinante di altri.
– Un tema molto presente nel disco è quello della terra. Come mai Battisti ha deciso di prestare così tanta attenzione alla natura, contrapponendola al consumismo?
Il mondo rurale e il ritorno ad una semplicità tangibile potevano essere un baluardo per evitare il contagio, questo legato alla critica nei confronti dei media, della pubblicità creativa e meschina. Colpisce “La canzone della terra” con le parole di un uomo ad una donna sottomessa: la ritmica semplice e ostinata e le tastiere tremolanti accompagnano la richiesta “io dolce e impetuosa ti voglio sentire”. È difficile che un cantante odierno, da classifica, inserisca in scaletta un brano così audace e sinistro.
– Ci sono anche tanti temi sociali racchiusi al suo interno. Ce ne elencate qualcuno?
La critica alla mentalità corrotta dall’istituzione religiosa, dal consumo, da un mercato che aliena. Mogol e Battisti avevano una consapevolezza diversa dalle “emozioni” dei primi dischi. Sono più difficili da collocare, erano ambigui e anche per questo le canzoni resistono nel tempo. Sicuramente erano per un’azione concreta diversa e non schierata come i tempi richiedevano: al piano politico preferivano la semplicità di “una vita luminosa e più fragrante” ascoltati oggi sembrano ancora incisivi.
– Qual è il brano che amate di più e perché?
“Le allettanti promesse”. Il fastidioso richiamo delle voci femminili di un’esistenza stereotipata ed effimera. Battisti che dice “No, no, io non ci sto”. “Io non posso parlare solo di calcio e di donne di membri lunghe tre spanne”, per chiudersi con “Un giorno potrai avere anche dei figli” e la risposta “Per farli crescere così preferisco allevar vitelli e conigli”. Oltre a “Il nostro caro Angelo” e “Prendi fra le mani la testa”, anche nella versione della Bertè.
– In che modo questo album ha influenzato il vostro percorso di crescita?
È un ascolto che resta: se parte mentre siamo in viaggio difficilmente cambiamo disco. Anche se conosciamo questo disco da sempre, le immagini presenti nei testi e in particolare il gusto negli arrangiamenti catturano ancora la nostra attenzione.
– E ora parliamo un po’ di voi. Che progetti state portando avanti in questo periodo?
Il 30 ottobre abbiamo partecipato all’omaggio a David Bowie del Gender Bender Festival di Bologna, rivisitare e registrare una sua canzone è stata una bella esperienza che ci ha impegnati per un paio di settimane. Dal 18 novembre inizieremo da Torino il tour invernale che ci porterà in giro almeno fino a gennaio, nel frattempo pubblicheremo una versione in vinile del disco e stiamo lavorando ad un ep in free download con alcune sorprese.
Egle Taccia