INTERVISTE Lezioni di Musica

Lezioni di Musica: Dardust ci racconta il suo legame con il Duca Bianco

Tornano le Lezioni di Musica. Chi meglio di Dardust, uno dei nostri pianisti più ascoltati al mondo, poteva essere scelto come professore per tenere una lezione su “Heroes”, il capolavoro berlinese di David Bowie?

In questa chiacchierata Dardust ci racconta il suo legame con il Duca Bianco, con il suo capolavoro, e ci fa scoprire tantissimi segreti su uno degli album culto della storia della musica.

David Bowie è un personaggio leggendario della musica mondiale. Ha avuto molti volti, è stato innovatore e creativo in ogni aspetto della sua esistenza, persino al momento della sua morte. Cosa ha rappresentato per te e qual è la caratteristica che ti ha fatto innamorare della sua arte?

Il camaleontismo stilistico sicuramente. Ma non nel senso estetico e prettamente visivo del termine, ad esempio in tutte le sue trasformazioni da Ziggy a The Thin White Duke. Ma sul fronte musicale stilistico, che era parallelo e contemporaneo ad ogni personaggio e che portava Bowie a non rimanere mai nella zona comfort, ma a spostarsi continuamente non assecondando nessuno e spiazzando i gusti di tutti. “Young Americans” ad esempio era spiazzante e fuorviante per chi era abituato al glam period, ma è un album pazzesco, di un’eleganza e complessità uniche che portava Bowie nel mondo del soul di Philadelphia, o meglio “plastic soul” proprio come lo definiva David.

Hai scelto di parlarci del dodicesimo album di David Bowie, “Heroes”. Cosa ti lega a quello che è da sempre definito come uno dei capolavori della musica mondiale?

Io ho scoperto Bowie a 9 anni nel periodo di “Labyrinth” e del successivo “Never Let Me Down”, che è il suo peggior disco. Ma cominciai subito una ricerca a ritroso nel suo passato per studiarne tutti i passaggi. Ricordo l’estate in cui da bambino comprai la cassetta di “Heroes” e lo iniziai a studiare per bene. Mi lega a quel disco proprio il primo impatto fuorviante e disturbante che mi scosse. Non c’era nulla di confortevole in “Heroes”, dal cantato, alla produzione, passando per le track strumentali. Per me Bowie fino ad allora si muoveva nel range rassicurante di brani pop come”Underground”, “Day in day out”, “Absolute Beginners”, che ascoltava mia madre in macchina.

Ricordi la prima volta che lo hai ascoltato?

Esattamente. Immaginate l’impatto con brani come “Beauty and the Beast”, “Joy the Lion”, “V2 Schneider” o “Blackout”. Per un bambino di 10 anni, che a scuola aveva i compagni che ascoltavano Baglioni, Cristina D’Avena o gli Europe, tutto ciò era assolutamente alieno. Ma ero talmente affascinato che avevo comunque sempre l’attitudine di capire e apprezzare a tutti i costi quello che sentivo da Bowie. Per questo l’ho ascoltato fino allo sfinimento fino a capire la bellezza di questo capolavoro. Quest’attitudine mi ha fatto crescere molto in termini di ascolti e di gusti musicali.

Se penso a come oggi i ragazzini ascoltano la musica, a quello che gira oggi e mi vedo da bambino a 30 anni fa con le cuffie che suonavano “Heroes”, mi viene da ridere. Ma lo dico con tutta l’umiltà del mondo.

“Heroes” è il secondo album della cosiddetta trilogia berlinese, città in cui Bowie scappò per salvarsi dagli eccessi di Los Angeles, in un periodo in cui molti lo credevano vicino alla morte. Pensi che con questo album abbia intrapreso un percorso di rinascita?

Sicuramente la rinascita era partita con “Low”, che segnava il trasferimento a Berlino. Avete mai pensato che Bowie dal ’70 al ’77 ha sfornato un disco all’anno e parliamo di capolavori come “Hunky Dory”, “The Man Who Sold the World”, “Ziggy Stardust”, “Alladin Sane”, Young Americans”, “Diamond Dogs”, “Station to Station”… avete idea? Pochi anni e ha cambiato la storia della musica con un capolavoro dietro l’altro in una velocità impressionante. Credo che l’uso della cocaina abbia influito sulla velocità e su tutto il resto. Berlino segna una nuova era creativa. Ripartire da zero senza sostanze, e rimettersi in gioco creativamente in maniera nuova e pura. E anche lì altri 3 capolavori.

L’album vede la partecipazione di Robert Fripp, chitarrista fondatore dei King Crimson, la cui personalità è protagonista in molti passaggi dell’album. Pensi che il suo contributo sia stato fondamentale per dare una nuova personalità alla musica di Bowie?

Basta ascoltare gli strati di chitarra di “Heroes” che fanno da tessitura al racconto della sua voce meravigliosa per capirlo. L’identità di questo capolavoro è legata certamente anche a Robert Fripp in termini di identità musicale. Sono anche quelle linee di chitarra che portano “Heroes” nell’eternità e la rendono immortale dai primi secondi.

L’album si muove tra vari generi. Anche se la sua etichetta lo pubblicizzò con la storica frase: “There’s Old Wave. There’s New Wave. And there’s David Bowie…” in realtà nel disco possiamo rintracciare anche influenze glam e hardcore. Come suona questo “Heroes”?

Suona come Bowie negli anni. Discontinuo, imprevedibile, perturbante, magico e stupefacente. Tutto e il contrario di tutto.

La title track racconta di una storia nata all’ombra del muro di Berlino, su cui si affacciava lo studio dove l’album è stato registrato. Sembra che Bowie li spiasse durante le registrazioni e che la coppia in questione avesse come protagonisti Visconti, il suo produttore, e la corista Antonia Maass, con cui aveva una storia. Che tipo di amore ci racconta “Heroes”?

Non saprei esattamente, c’è il Muro di Berlino, c’è la Guerra Fredda, forse un amore impossibile vissuto di nascosto sotto al Muro, forse la voglia di riscatto e di essere degli eroi. Sono immagini che si susseguono in un flow poetico unico. La sensazione che rimane è poco codificabile con un’analisi razionale del testo.

C’è una canzone dell’album a cui sei più legato?

“The Secret Life of Arabia”. Non chiedermi perché, ma l’ho sempre amata. Mi porta nel deserto, nel caldo afoso di un posto che ho sognato da bambino e, per quello che mi riguarda, in una delle estati più belle della mia infanzia.

Adesso parliamo della tua musica. È da poco uscito per Inri il tuo album acustico “Slow is”. Ci presenti il disco e ci parli dei tuoi programmi per i prossimi mesi?

“Slow is” non è il terzo album della trilogia ma solo una parentesi spin off dal racconto dei tre dischi. Volevo togliere l’elettronica, prendere i migliori brani di “7” e “Birth” e riscoprire l’essenzialità della scrittura al piano e l’emozionalità degli archi. Dardust alla fine nel primo embrione è partito cosi. E a proposito di archi ho avuto modo di collaborare con il violinista Davide Rossi che ringrazierò sempre. Questa parentesi è stata difficile e più complicata delle altre, ma mi ha fatto crescere molto.

Egle Taccia