Riprende la scuola per tutti e anche la Qube Music School riparte con una bella lezione tenuta da Francesco Draicchio (Checco) de Lo Stato Sociale, che ringrazio di cuore per aver tirato fuori uno di quegli album bellissimi, di cui però non si sente parlare spesso, anche se sono dei piccoli gioielli della nostra musica.
Oggi parliamo di “The Plural of the Choir” dei Settlefish, band bolognese nata intorno agli anni 2000, che ha avuto un notevole successo anche all’estero. Nella band hanno militato personaggi come Jonathan Clancy, Emilio Torreggiani, Bruno Germano, Paul Pieretto, Federico Oppi, Stefano Pilia, Phil Soldati.
Apparizioni su MTV, tour negli Stati Uniti e in Europa, ne hanno fatto una delle band di riferimento di un certo indie rock del periodo. Il resto lo lascio alle parole di Checco, che vi racconterà perché questa band e “The Plural of the Choir” sono così importanti per lui.
Ti va di raccontarci la storia dei Settlefish?
La storia nello specifico penso sia il caso ve la raccontino gli stessi, e comunque in giro si trovano delle bio se qualcuno è interessato, posso però raccontarvi che, dal canto mio, li conobbi con tanto di folgorazione ad un concerto di quelli auto-organizzati per la festa delle scuole di Bologna (o una cosa così), che erano una band piuttosto scalmanata di compagni di liceo, che all’epoca si facevano ancora chiamare Video Snuff e che da lì in poi continuai a seguirli come Settlefish. Ricordo ancora come fosse ieri l’acquisto del loro primo split cd con i Tenuta (se non ricordo male 2001/2002) che conservo tuttora gelosamente in una scatola a casa dei miei come simbolo imperituro della mia giovinezza che fu. Poi ovviamente seguirono altri dischi e numerosi loro concerti nella mia storia personale, ma questa è tutta un’altra storia.
Molti degli artisti che hanno fatto parte della band, che ufficialmente non si è sciolta, oggi sono dei personaggi molto noti della scena indie italiana. Ce li presenti?
Non so se si sia sciolta ufficialmente o meno, le ultime chiacchiere che feci con loro a questo proposito parlavano di una pausa. Se parli di pausa ad un esterno lasci molte vane speranze, è come essere in pausa con la morosa: gli “esterni” mica sanno di cosa stai parlando. Più o meno, quando sospendi un rapporto di qualunque natura esso sia, la configurazione di come andranno le cose nella tua testa già ce l’hai. Dalla pausa in poi, per quello che so, hanno preso più o meno tutti strade professionali, artistiche ed estetiche diverse, giusto così. Ricordo gli A Classic Education di Jonathan, Paul e Federico. His Clancyness attuale progetto di Jonathan, che sta andando parecchio bene sia in Italia che all’estero e di cui può vantare uscite per l’europea Fatcat Records. Bruno, produttore e fonico di Iosonouncane. Emilio si occupa di produzione video. Stefano Pilia, oltre che come solista, lo puoi ritrovare tra le fila dei Massimo Volume e degli Afterhours di questo tour. Insomma, finiscono gli amori, le persone vanno avanti.
Furono una delle prime band italiane ad avere un contratto con un’etichetta indie statunitense, grazie alla quale si esibirono in giro per il mondo. Qual è, secondo te, la caratteristica della band che li ha portati così lontano?
Sì, ricordo che uscirono per la Deep Elm Records, inizialmente con dei brani per qualche compilation e subito dopo col full length “Dance a while, Upset” ma in tutta onestà non credo sia stata questa la ragione principale del loro esibirsi in venue di tutto il mondo. Ovviamente aiuta avere una base operativa al di fuori dell’Italia o addirittura dall’Europa se quello che ti interessa è fare tour internazionali ed è anche ragionevole pensarlo, ma il discorso dei tour all’estero, almeno nell’ambiente culturale in cui respiravo e vivevo e di cui facevano parte i Settlefish, non c’entra molto con l’etichetta in sé quanto con la tipologia di “giro” e di rapporti che coltivi. Senza voler entrare nel merito e nello specifico, esiste effettivamente un mondo, soprattutto quello legato al punk, in cui le band organizzano tour all’estero piuttosto ampi ed economicamente onerosi in maniera del tutto autonoma attraverso i rapporti umani e lo scambio costituito fondamentalmente dalle ovvie economie di sostentamento e dalla cooperazione sinergica tra le realtà che lo abitano. I Settlefish come molte altre band italiane facevano parte di questo mondo.
Hai scelto di parlarci del loro secondo album, “The Plural Of The Choir”. Qual è la ragione che rende questo album così importante per te?
Fondamentalmente perché è stato il mio album preferito per molto tempo, probabilmente lo è ancora. Anzi è proprio un disco del cuore. Diciamo che ha proprio scandito il passaggio dall’essere un teenager al diventare un giovane adulto insieme a tutta la catastrofica bellezza che quel periodo porta con sé. Sono anni di formazione molto importanti quelli e in quel lasso di tempo si compiono scelte grossolane, si fanno molti errori, primi amori che finiscono, ti affacci per la prima volta al senso di responsabilità. Tecnicamente ti destreggi nel vano tentativo di mettere la tua vita su un binario, una direzione di cui non sai nulla e non sai dove ti porterà e in tutto quest’imponderabile vivi una disperata gioia-euforica. Dai cazzo sono gli anni più spaventosi della tua vita e i dischi che hai ascoltato e che ti hanno fatto compagnia te li porterai per sempre dietro. Almeno per me è stato così.
Ricordi la prima volta che l’hai ascoltato?
All’epoca si utilizzava Soulseek (un noto peer-to-peer di quegli anni lì) per reperire musica ma l’album prima dell’uscita era introvabile, inoltre in quel periodo frequentavo molto Maolo, fratello di Emilio, ma i leak erano pochissimi. Ricordo anche che avevo l’abitudine di registrare alcuni brani live delle bande che andavo ad ascoltare con un recorder mp3 che tenevo in tasca e dei Settlefish ne avevo già un po’, alcuni di quel disco, ma non tutti. L’ascolto integrale lo feci solo il 17 marzo 2005 in quel negozietto che una volta si chiamava Underground di via Petroni a Bologna, era la data pomeridiana del release party di Unhip (il disco era infatti coprodotto Unhip e Deep Elm). Quando entrai per acquistare “The Plural of the Choir” era già in filodiffusione nell’impianto del locale come la miglior tradizione vuole. Lì, praticamente in mezzo alla strada, ci fu anche un live illegale e quasi integrale del disco, ma poi arrivarono le forze dell’ordine e si dovette interrompere. Poi a casa terminai l’ascolto. Mi ricordo vividamente e con molto piacere di quel giorno.
Ci parli del contesto musicale in cui si colloca la pubblicazione di “The Plural Of The Choir”?
Da quando ero ragazzino sono sempre stato molto appassionato di musica americana, in mezzo a tutti gli ascolti che facevo tra i più frequenti posso annoverare: Fugazi, At the drive-in, Drive Like Jehu, Rival Schools, Quicksand, Cap’n’Jazz e via così, vuoi un po’ per l’età o per l’attitudine che avevo in quel periodo. Contestualmente in città, per quello che per me era Bologna, c’era molto fermento soprattutto nell’ambiente punk. Potevi assistere a numerosissimi concerti ogni settimana semplicemente spostandoti tra l’XM24 e l’Atlantide e comprare tra una varietà pressoché illimitata i dischi direttamente dalle distro che vendevano in loco o da Underground. Inoltre Unhip stava crescendo, Giovanni Gandolfi organizzava delle rassegne in giro per i locali della città, tutto stava diventando una realtà piuttosto tangibile. Per quanto mi riguarda era un momento culturalmente molto florido infatti per noi 18-25enni del primo lustro dei 2000 questo contesto culturale e la possibilità che ci dava significava molto o, almeno noi sbarbi, avevamo la sensazione che qualcosa stesse accadendo e per come avevamo percepito la cosa ci sembrava si fosse costituito il filo che connetteva direttamente, che ne so, Bologna a Washinghton. Magari ci siamo sbagliati ma era bello pensarla così.
È un album di 15 brani, con pezzi della durata di un minuto ed altri che superano i sei, segno che fregarsene di certe logiche discografiche in fondo può solo giovare alle band. Quali sono le sue principali caratteristiche?
Mah, la faccio semplice. Secondo me è un bellissimo disco di una tra le migliori rock band italiane di sempre. Semplicemente è per me quello che significava l’hardcore nel 2005. Forse ancora oggi.
Qual è il pezzo che preferisci e perché?
Non saprei dirti, diciamo che è un disco che ha significato molto per me, per la mia formazione, e l’ho sempre ascoltato tutto dall’inizio alla fine in blocco. L’ho sempre preso e percepito così, come opera monolitica, e non sono mai riuscito a selezionarne dei brani o a smembrarlo in qualche modo. Sono molto affezionato a tutto, anche alla copertina. Per me ogni brano è funzionale al disco come lo sono tutte le parti meccaniche che costituiscono la tua bici preferita dell’infanzia. Non puoi voler conservare solo i pedali o il sellino ma tutta la bici, no?
Ora parliamo di te. Stai lavorando a nuovi progetti in questo periodo?
In questo periodo stiamo scrivendo il nuovo disco de Lo Stato Sociale. Per quanto mi riguarda non c’è molto tempo per altro visto che comunque riesco a barcamenarmi bene o male con un altro lavoro extra-musica. Diciamo che siamo già in produzione in studio da tempo e ora a lavori sufficientemente avanzati, ma abbiamo ancora molto da fare all’orizzonte quindi non aspettatevi nulla prima del 2017. C’abbiamo una gran carica di uscire? C’abbiamo una gran carica di uscire.
Egle Taccia