Si torna a scuola con una nuova lezione di storia della musica tenuta da Prof. Cristiano Lo Mele dei Perturbazione, che ha scelto di parlarci de The Smiths e del loro “The Queen Is Dead”, album riconosciuto come capolavoro della formazione, probabilmente perché racchiude al suo interno tutto quello per cui la band viene ricordata negli anni. L’opera de The Smiths si snoda attorno ai testi di Morrissey, che sono delle vere e proprie opere letterarie, nate dalla sua immensa passione per la letteratura inglese e principalmente per Oscar Wilde, e dall’originalità del chitarrista Marr, che ha saputo creare il degno tappeto sonoro a quelle meravigliose poesie.
Se siete appassionati di Brit Pop, dovete ringraziare certamente The Smiths per essere stati l’ispirazione da cui è scaturito quel fenomeno musicale! La band rappresenta infatti la pietra miliare di ciò che è stata successivamente la musica inglese negli anni ’90-’00. Furono la prima band britannica, nata in quella fucina di talenti che è Manchester, a portare l’indie nel mainstream, a porre le basi per un pop che non fosse poi così scontato. In quel periodo storico in cui il punk stava cedendo il passo alla new wave, The Smiths rappresentano certamente una perla rara.
– Hai scelto di parlarci di “The Queen Is Dead” dei The Smiths, band definita come la più influente di tutti i tempi. Cosa ti affascina di questo gruppo?
Beh, per quanto io sia un amante de The Smiths, ci andrei piano con la definizione di “band più influente di tutti i tempi”. Senz’altro lo è nell’ambito di un certo modo di far pop e soprattutto di raccontar storie. Da chitarrista ho una predilezione quasi religiosa per Johnny Marr, da musicista di una band adoro il loro suono delicato, infarcito di post-punk (nella base ritmica) e di soul (nella chitarra, appunto). Infine, avendo vissuto – come tutti o quasi – il periodo Wildeiano in adolescenza, la poetica di Morrissey è un tuffo al cuore.
– Ti ricordi la prima volta che hai ascoltato “The Queen Is Dead”?
– Mi ero da poco trasferito nella nuova città in cui avrei abitato, perdendo tutti i legami di amicizia che mi avevano accompagnato fino ad allora, era un taglio netto tra l’età fanciullesca e l’adolescenza: avevo 13 anni e un fratello di 15 che a sua volta aveva compagni di classe con fratelli più grandi e in questa catena mi arrivarono alle orecchie The Smiths, prima “Hateful of Hollow”, poi “I know it’s over” mi stese.
– Perché questo album può considerarsi il capolavoro della band?
Sebbene la coppia Morrissey / Marr abbia sempre additato “Strangeways, here we come” come loro apice, trovo che in questo disco si raggiunga la vera maturità e completezza di suono e di parole, mettendo a fuoco l’impegno politico già sviscerato in Meat is Murder.
– Ci parli del contesto musicale in cui si colloca la pubblicazione del disco?
Siamo nel 1986, il punk aveva abbondantemente lasciato il posto alla new wave che ne aveva raccolto non soltanto lo scettro ma anche una certa estetica, seppur riportata in territori più “liquidi”. Dall’altra parte il pop aveva perlustrato il mondo dei sintetizzatori. La grande capacità di gruppi come The Smiths ma anche The Cure o, di lì a poco, gli Housemartins fu quella di spostare l’attitudine punk / new wave in territorio pop: The Smiths erano il classico quartetto basso, batteria, chitarra e voce (come i Pistols, per dirne uno) e riuscirono, grazie all’attitudine espressa nella prima risposta, a colmare la distanza tra quei mondi che sembravano distanti anni luce, rendendo così il pop una cosa meno peccaminosa.
– I testi di Morrissey e l’originalità chitarristica di Marr, hanno lasciato un’impronta indelebile nella musica contemporanea. Secondo te qual è il segreto del successo della band?
Molto spesso la risposta sta nella domanda e così è in questo caso. Oltre quanto già scritto tra domande e risposte, credo che Pier Vittorio Tondelli abbia centrato il (mio) punto in “Un weekend postmoderno” quando dice, parlando della voce di Morrissey, “la sua voce sensuale, strascicata e maledetta: l’unica un po’ perversa che questi primi anni ottanta – obsolenti, invece, di falsetti e mezzeseghe – ci abbiano dato”. In materia di pop, direi la stessa cosa riguardo la musica.
– Molti dei testi di Morrisey sono influenzati sia dalla sua passione per la letteratura inglese, e per Oscar Wilde in particolare, che dalla sua passione per il glam rock. In che modo questi mondi, apparentemente così distanti, sono stati trasfusi nello stile della band?
Non mi stupirei se un Oscar Wilde nato negli anni ’50, avesse deciso di suonare nei New York Dolls. Diciamo che la sobrietà non è tipica di nessuno dei mondi elencati.
– “The Queen Is Dead” nasce in un periodo di forte crisi per la band, nel bel mezzo di una battaglia legale con l’etichetta Rough Trade, che coinvolse anche gli altri due membri del gruppo Rourke e Joyce, crisi che ne ritarderà l’uscita e porterà Marr a diventare manager della band per un periodo. In seguito lo stesso Marr racconterà a NME: “Il logorìo psicofisico non era che un lato della medaglia; stavo veramente male. Quando finì la tournée, tutto quanto stava diventando un po’ pericoloso. Bevevo più di quanto riuscissi a reggere”. Questo evidenzia come spesso dai periodi peggiori vengano fuori dei capolavori. Ci sono tracce di questa crisi nel disco?
Credo che quando si compone un brano come “Frankly, Mr Shankly” si stia palesando un certo tipo di disagio legato alla propria carriera, questo brano l’ho sempre visto come la loro “Avvelenata”.
– Parliamo della title track. Doveva chiamarsi “Margaret On The Guillotine”, una stoccata contro la Tatcher, ma poi optarono per “The Queen Is Dead”, forte critica alla monarchia, sempre mal sopportata da Morrissey. Per quel periodo era raro che una band lanciasse dei messaggi di riflessione nei propri brani?
No, non direi, credo al contrario che da “God save the Queen” dei Sex Pistols in poi, Elizabeth ci avesse fatto il callo a esser presa di mira da un certo mondo musicale. Così aveva, infatti, agito la scena punk per tutto il periodo precedente, rendendo fertile il terreno per certi contenuti che The Smiths stessi avevano già affrontato con Meat is Murder. Siamo inoltre nel periodo della “red wedge”, la corrente che coinvolgeva artisti che davano addosso ai conservatori e il cui elenco è stupefacente: The Smiths, Billy Bragg, Paul Weller, Redskins, Housemartins, Madness, Elvis Costello e altri.
– Pensi che scegliere di criticare la monarchia li abbia aiutati a cementare il proprio rapporto col pubblico, che è sempre stato di vero e proprio culto?
Penso che aver preso parte alla “red wedge” sia stato molto importante: Morrissey cantava di problematiche molto personali, sapeva andare a toccare quello spleen senza alzare la voce, lo rendeva vicino e comprensibile a chi non aveva voglia di farsi una cresta o scendere in piazza a lanciar molotov, era una forma di rivoluzione gentile, un modo pacato di parlare degli stessi problemi di cui normalmente si urlava, in questo modo intercettava una fascia molto giovane che, per i mezzi di emancipazione ed economici della gioventù, mal digeriva la gestione di una Thatcher.
– Qual è il brano che ami di più di “The Queen Is Dead” e perché?
“There is a light that never goes out” e non so darti un perché razionale, so solo dirti che per me è la canzone più bella di sempre e mi basterebbe questa per amare il gruppo.
Parliamo dei Perturbazione adesso. Che programmi avete per l’estate?
– Continuare a portare in giro il nostro spettacolo con Andrea Mirò, mentre già stiamo mettendo mano a progetti per il futuro che è ancora troppo presto per svelare.
Egle Taccia