INTERVISTE

Intervista a Matteo Bennici: essere se stessi come forma di sperimentazione

Matteo Bennici, polistrumentista e bassista de Le Luci della Centrale Elettrica

Solum è un’opera prima ben lontana dalla concezione acerba che spesso si nasconde nei primi lavori di un’artista. Matteo Bennici, bassista de Le Luci della Centrale Elettrica e polistrumentista ha dato vita al suo progetto da compositore con un album estremamente sfumato, capace di ricordare il profumo del suolo bagnato durante la pioggia e il sole secco estivo che brucia la terra, un lavoro atmosferico, dal titolo omonimo al disco stesso. Nella nostra chiacchierata di presentazione abbiamo parlato di cinema, arte e di come la cultura può cambiare nel nostro paese.

– Che rapporto c’è tra il tuo lavoro con Le Luci e questo lavoro da solista?

Sono due progetti che procedono paralleli in questo momento della mia vita. Uno è un progetto avviato da tempo in cui sono coinvolto dal 2015 e in cui ho un ruolo ben preciso; l’altro è appena nato, con la pubblicazione di Solum e – semplicemente – si tratta della mia musica.

– Il tuo rapporto con il cinema è chiaro, con quale regista ti piacerebbe lavorare e perché? Come si lega la tua estetica al cinema?

Mi piacerebbe innanzitutto realizzare altri lavori con registi indipendenti con cui ho già collaborato come Mario Amura, Francesco Faralli, Tommaso Bernabei, Tuia Cherici, Alessio Lavacchi per citarne alcuni. Poi, se posso sognare: Lynch, Jarmush, Kaurismaki, Neshat, Garrone, Villoresi, tutti registi che lavorano con la musica in modo per me elettrizzante.

Ho scritto tante colonne sonore per cinema, teatro ed altre arti e conservo la stessa passione di quando ho iniziato: quella di comporre a partire da immagini, tracce, esigenze e spesso regole preesistenti ma cercando sempre di dare vita, libertà e dignità alla “musica per”. È un lavoro difficile, che va studiato ed esercitato molto ma mette sempre alla prova il compositore, la sua fantasia e la sua capacità non solo di sperimentare, ma anche di riuscire nell’esperimento.

– Un grande disco, un grande film o un romanzo possono effettivamente cambiare la cultura, oggi è in atto un cambio di paradigma culturale in Italia, quali pensi siano gli esempi di questo cambiamento?

Ammetto di essere scettico sul fatto che oggi una singola opera letteraria o artistica possa cambiare la società. Solo un buon sistema educativo può fare tanto, ma purtroppo da questo punto di vista l’Italia non fa che mortificare e semplificare sempre più l’istruzione. Senza strumenti critici le nuove generazioni non saranno più in grado di distinguere tra una rockstar e un gerarca fascista perché la realtà risulta troppo sfumata, i simboli vengono scambiati per il reale e il “messaggio” si perde nello stream. Poi non so se parliamo dello stesso cambio di paradigma culturale: a mio avviso il multiculturalismo e una società solidale sono i parametri indispensabili in questo momento, ed è importante che ognuno, coi propri mezzi, si confronti con essi.

Io credo ad ammiro unicamente quelle persone che dimostrano spirito critico e aiutano gli altri, senza secondi fini, ad interpretare la contemporaneità attraverso il proprio lavoro.

 – Il tuo lavoro sembra quasi uno scavo, una miniera musicale da cui stai attingendo, quali segnali hai seguito per avere questo risultato? Quali sono stati i tuoi riferimenti?

È vero. La mia musica -soprattutto in Solum-  nasce dallo sviluppo di elementi melodici o ritmici (più raramente concettuali) che si depositano e vengono elaborati nel tempo, fino a trovare una buona collocazione insieme ad altri elementi come in un mosaico. Spesso la scintilla è l’improvvisazione, il gusto di suonare registrando come faccio da sempre (anche con altri musicisti). Così, col tempo, si crea la miniera da cui scegliere i frammenti.

La guida è sempre l’idea, poi c’è il percorso necessario perché essa smetta di essere un’idea e diventi altro. Mi prendo un sacco di tempo per seguire questo processo e nel frattempo ascolto tantissimo sia il mio materiale, sia la musica che mi piace o che mi potrebbe piacere. Ascolto di tutto, sempre, non ho smesso mai di ascoltare (o leggere di) musica!

Al momento vado matto per Carla Kihlstedt, Amy Denio, Achref Chargui Trio, Jaga Jazzist, Sleaford Mods, Thollem McDonas, la musica indiana che sto cercando di capire, insieme alle passioni di sempre come la musica africana, il blues, la classica sinfonica, il death metal degli anni ’90, il rap bello, l’ambient-dub e la musica strana in generale.

– Un disco così necessita un approccio alla musica a 360 gradi, qual è la tua storia musicale?

Ho iniziato molto presto grazie a una famiglia di musicisti e musicofili. Suonavo il violoncello da bambino, poi ha fatto irruzione il rock con tutti suoi tentacoli e sono passato al basso, alla musica estrema, alla sperimentazione. Ho anche suonato il contrabbasso facendo folk, swing e improvvisazione ma poi ho smesso per tornare al violoncello e al basso elettrico.

Non ho fatto studi accademici ma ho viaggiato un bel po’, ho suonato di tutto e ho incontrato lungo il percorso tante persone da cui ho imparato quasi tutto. I progetti più duraturi con cui ho collaborato in passato sono stati Cryogen, Traumfabrick, Motociclica Tellacci, Squarcicatrici e Tsigoti ma potrei citarne a decine. Per molti anni ho vissuto nelle campagne toscane, facendo parte del collettivo musicale SGR Musiche di Nipozzano e di quello teatrale di Fosca.

Da sempre mi interessa la composizione e ho realizzato molte colonne sonore per teatro, cinema, arti visive e moda.

Da qualche anno vivo a Milano, città che mi piace e che mi dà la possibilità di suonare più che in passato, facendo esperienze musicali bellissime in generi molto diversi.

 – Tante volte mi piace leggere delle biografie degli artisti, di quale artista, idealmente, vorresti essere una colonna sonora e perché?

Sicuramente Dziga Vertov, il regista sovietico de L’uomo con la macchina da presa, vissuto nella prima metà del Novecento. Amo la sua storia, che non è una storia di successo bensì di puro pionierismo artistico ed sperimentalismo, sia nella forma che nel messaggio. È uno che, come me, ha prodotto gran parte del suo lavoro su commissione ma è riuscito ugualmente a sperimentare a tal punto da inventare il linguaggio del moderno documentario per sole immagini, e non solo quello.

Ho dedicato a lui il mio progetto Shestaya, in cui sonorizzo dal vivo (in solo, con violoncello ed elettronica) alcuni estratti dei suoi film muti.