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Almamegretta: la semplicità che fa la grandezza [INTERVISTA]

Sono anime migranti gli Almamegretta, che spaziano su territori geografici, musicali e culturali disparati. Che credono al gruppo, alla band, come ad un collettivo dove le esperienze fatte da soli, “fuori casa”, si riportano tra le mura domestiche come un arricchimento per tutti. Che preferiscono la semplicità e un’umile normalità alla luci della ribalta. E poi c’è Napoli e la napoletanità: quello strano senso di nostalgia, comune alle migliaia di napoletani sparsi per il mondo; quel “sentimento inspiegabile”, per dirla con le parole di Gennaro T, il batterista, di cui non c’è neanche bisogno di parlare espressamente perché, conferma Raiz, “è qualcosa che hai dentro”. Così è, nella lingua, nelle canzoni, nei live e nell’album “Controra”, l’ultimo lavoro del gruppo o potremmo anche dire il primo della “reunion”: datato maggio 2013, il disco ha in sé, in sintesi, tutto questo.

– 1992-2014: la strada è tanta. Umanamente e musicalmente, cosa non c’è più o cosa fa la differenza?

Gennaro T: C’è la consapevolezza di aver messo in piedi un progetto che ancora oggi è in grado di dire delle cose. Come la situazione di stasera (16 luglio “Roma Incontra il Mondo” n.d.r.) in cui suoniamo con Adrian Sherwood, colui che ha mixato un album importantissimo per noi, “Sanacore”; questo la dice lunga sul discorso del presente e del passato. Avevamo l’idea, quasi l’utopia, che la nostra musica fosse un viaggio al di là delle distanze geografiche e anche di quelle temporali, e tutto questo è totalmente organico al progetto. Si torna a lavorare con le persone con cui abbiamo lavorato nel passato come se il tempo non fosse trascorso.

– In verità non vi siete mai separati!

Raiz: Abbiamo sempre lavorato insieme. Il fatto è che, talvolta, si da troppa enfasi a certe cose. Un gruppo viene sempre visto in stile Rolling Stones, quasi un matrimonio a quattro. Noi abbiamo fatto 13 anni insieme, vedendoci tutti i giorni, in maniera fisiologica. Poi ognuno si è avvicinato ad un altro progetto, ma non ci siamo mai persi. Uno di noi, purtroppo, oggi non c’è più; un altro è andato a vivere a lungo a Londra; Gennaro ha continuato con il nome Almamegretta con altre persone; io ho fatto dei dischi da solista. Diciamo che ci siamo un po’ sparpagliati e ad un certo punto ci siamo ritrovati.

– All’inizio era Dub: di che si tratta dal punto di vista di un gruppo che è stato pioniere del genere in Italia?

R.: È una grammatica semplice sulla quale puoi costruire tante cose e parlare di cose semplici, capace di dare una sensazione psichedelica, onirica, dove i vuoti sono più importanti dei pieni. E in un mondo in cui tutti parlano tantissimo, un mondo di iperstimolazione, dove tutti sono opinion leaders, noi, spesso, preferiamo tacere e dire solo cose nelle quali crediamo davvero e che in definitiva ruotano intorno all’amicizia, allo stare insieme, a sentimenti semplici che qualcuno potrebbe dire “banali”. D’altronde banale è anche respirare migliaia di volte al giorno, ma se non lo fai, muori!

È l’elogio della normalità?

R.: Trovo più rivoluzionario oggi un padre di famiglia che lavora e cerca di portare i soldi a casa rispetto a chi deve per forza entrare in un talk show, per esempio. Noi siamo un gruppo molto normale. Siamo semplici, facciamo canzoni, nessuno di noi si dà ad eccessi. Lo vedo anche tra chi ci segue su Internet, e non. Tutte persone “normali”, gente né troppo trendy, né troppo matta nelle opinioni. Tutte persone che incontro normalmente per strada. Quando sono a Napoli, in giro al centro, mi capita di essere riconosciuto e di essere invitato per un caffè, ma nessuno fa follie! E questo è molto bello perché ti lascia anche essere uno fra i tanti. Sei uno che racconta una storia e gli altri lo ascoltano. Torniamo un po’ al ruolo dell’artigiano nel villaggio: una definizione che, presa con le pinze, è quella nella quale ci rispecchiamo noi.

– Nella vostra “semplicità”, avete fama internazionale e ben presto avete allargato orizzonti e collaborazioni. Qual è il fattore italiano che avete portato con voi?

G.T.: La melodia, napoletana e mediterranea. Anche perché la base della canzone italiana è la canzone napoletana. Il problema oggi è non riferirsi solo al passato, dormire sugli allori! Abbiamo cercato di riattualizzare la musica napoletana confrontandoci con il mare magnum della musica internazionale, innanzitutto con il raggae, che è stato fatto in Giamaica, che è molto lontana!

– Almamegretta significa Anima migrante: siete voi o la vostra musica?

G.T.: A noi piace viaggiare in tutti i modi, non solo fisicamente ma anche e innanzitutto culturalmente perché crediamo all’incontro tra le culture più diverse. Soprattutto a livello musicale ci piace spaziare tra musiche apparentemente distanti in cui però, secondo noi, c’è un filo conduttore. Per cui “Anima migrante” ci è sembrato un nome calzante.

Mario Formisano: “Anima migrante” è anche un bel pensiero: il fatto di potersi muovere tutti liberamente, in questo mondo sempre così difficile dove ognuno è chiuso nel proprio piccolo universo. L’ideale sarebbe girare con la musica e veder anche gli altri farlo. In Italia manca ultimamente un po’ di buona musica, non se ne fanno molti di concerti interessanti, forse non ci sono abbastanza soldi, forse non c’è pubblico, non saprei. O forse non c’è chi rischia.

– E voi rischiate?

Tutti: Sì, da quando siamo nati!

 Sara Cascelli