Sono le 23:59 del 9 maggio 2019 quando arriva sulle piattaforme di streaming “Liberato”, album di debutto dell’entità più enigmatica e discussa della scena musicale napoletana. Parlare di “artista” potrebbe sembrare inopportuno, proprio come azzardato potrebbe essere definire Liberato un “progetto musicale” o una “strategia di marketing”. Oltre ogni definizione e teoria complottista, Liberato costituisce senz’altro l’anima segreta di Napoli, il volto di una città contraddittoria, in cui la coabitazione di tradizione ed innovazione, globalizzazione e malavita, sposa perfettamente il sound di un disco sospeso fra dubbio e stupore, folklore e musica elettronica, dialetto campano e lingue straniere.
Dopo sei singoli, che contano milioni di views su Youtube, il lancio del disco è avvenuto attraverso una videoserie, intitolata “Capri Rendez-Vous” ed ambientata nella Capri degli anni Sessanta, la cui regia è stata affidata a Francesco Lettieri.
Siamo dinanzi ad un raro esempio di concept album/visual album tutto italiano.
Ad aprire la soap in bianco e nero è “Guagliò”, brano dalle sfumature dancehall reggae: due guardie rincorrono un uomo in fuga, elegantemente vestito, che sta per raggiungere due amanti a bordo di una piccola imbarcazione (in sottofondo un romantico “fujtenne cu’mme, ramm n’abbracc“). L’uomo giunge in spiaggia, ma è raggiunto da un colpo di pistola e si accascia a terra. Palpabile è lo sgomento della donna che raggiunge immediatamente l’uomo. Poi, si ode uno “stop”: siamo sul set di un film. Il regista si complimenta con la giovane attrice francese, che scopriamo chiamarsi “Marì”, e l’accompagna all’imbarcazione che la condurrà presso il suo hotel. La storia procede con il videoclip di “Oi Marì”: l’eco latina è costellata da alcuni versi in spagnolo, in cui si rintraccia la tensione erotica che si sviluppa fra i protagonisti (“Ya me muero a vivir sin ti; mi corazon, m’è luat ‘o suspir“). Marì e lo scugnizzo che la sta accompagnando parlano lingue diverse, si capiscono a fatica, ma la complicità che si instaura, dopo un tuffo in mare, esplode in un bacio appassionato sotto i Faraglioni. Si passa, poi, a “Nunn’a voglio ‘ncuntrà”: è il 1975. Il mozzo della traccia precedente è oramai adulto e rivede l’attrice, che aveva incontrato circa dieci anni prima, circondata da paparazzi ed accompagnata dal suo fidanzato. Il tormento è espresso da un sound a metà fra folk e dubstep, dall’elaborazione di un locus amoenus, in cui si intrecciano la spensieratezza del passato ed i rimorsi del presente (“teng’ o’ core sott’anestesia, quann’ stev cu ‘mme er”na femmn senza poesij“).
È il turno di “Tu me faje ascì pazz”, che segna il ritorno all’elettropop dei singoli pubblicati prima della videoserie: siamo nel 1993, probabilmente ancora a Capri. Un uomo, che indossa la divisa da carabiniere, è in compagnia di una donna che spinge un passeggino. La camminata è, però, subito interrotta dal baccano di un’osteria, in cui il banchiere discute con una donna visibilmente ubriaca. Una volta fuori, la sventurata sbiascica qualche parola in francese ed il flashaback è immediato: si tratta dello scugnizzo e dell’attrice dei video precedenti. Il carabiniere, che porta il nome di “Carmine”, riaccompagna Marì a casa e si priva della sua fede nuziale, pronto a concedersi, in preda all’inebriamento dei sensi. La conclusione è affidata a “Niente”, accompagnata da un susseguirsi di foto e da una chitarra che ci parla timidamente, in cui si respirano malinconia e desolazione: il volto di Marì è attraversato da profonde rughe ed i suoi capelli si sono tinti d’argento. Dopo aver passeggiato nel blu dell’isola delle sirene, Marì si reca al cimitero e lascia i frammenti del suo cuore infranto fra due tombe: quella di Dino Linetti, regista che le ha dato fiducia quando era solo un’attrice emergente, e quella di Carmine, il suo grande amore (“quann te ne vaje, nun sent ‘cchiù nient. Chell’ che è stat, nun serv ‘cchiù a nient“).
Le restanti tracce dell’album sono state pubblicate fra il 2017 ed il 2018. In antitesi con la semidillica Capri, in un’inedita commistione di piano e voce soltanto, si racconta “Gaiola”, pubblicata nella sua versione originale sotto il nome di “Gaiola Portafortuna” ed accompagnata da un video girato in una Cuba fittizia, sviluppatasi fra Napoli e Pinetamare, e dipinta con i colori caldi di una comunità che continua a vivere nella miseria. Ai più l’isola della Gaiola è nota come “l’isola maledetta” a causa degli sfortunati eventi che hanno colpito i suoi proprietari, prima che cadesse in abbandono. Liberato nasce, però, con “Nove maggio”, fra i motorini che sfrecciano nelle anguste strade dei Quartieri Spagnoli e le raffigurazioni di Maradona e della Madonna, icone per eccellenza della città di Napoli, in cui il calcio e la religione costituiscono due realtà perfettamente sovrapponibili. La scalata continua con la travolgente “Tu t’è scurdat e me”. Si tratta del racconto di uno scontro fra cuori, fra la Napoli bene e quella parte del capoluogo dimenticata, incustodita, il cui grido continua a perdersi in sguardi omertosi e promesse solo pronunciate. La storia fra i due protagonisti, che sembra essere presentata quando è già al capolinea, continua nei video di “Intostreet” e di “Je te voglio bene assaje”; nel primo, il ragazzo, pur essendo in compagnia di una nuova fidanzata, è intenzionato a riconquistare il suo vecchio amore e sembra riuscirci fra sms e baci (non troppo) rubati. Nel secondo video, invece, la relazione è raccontata attraverso le fragilità della protagonista di “Tu t’è scurdat e me”, anch’ella fidanzata ed incapace di spazzar via i suoi ricordi, anch’ella pronta a cedere ai richiami del passato. Volutamente alla fine, cito “Me staje appennenn’ amo”: “appendere”, nel gergo campano, sta per “chiudere”, “interrompere” e sono convinto che Liberato “ci appenderà” ancora innumerevoli volte prima di rilasciare delle nuove tracce, prima di svelare una nuova location per i suoi futuri concerti, prima di colmare il vuoto dell’attesa con la sua arte. E noi aspetteremo ancora.
VOTO: 9/10
Vincenzo Parretta