Se Sanremo si è appena concluso con la vittoria dei Maneskin in chiave rock, noi siamo andati alla ricerca di Celiodie artista cult degli anni ’80, che trovò la chiave del successo attraverso la musica elettronica, e le prime sperimentazioni con i sintetizzatori. Era l’epoca dei Talking Heads e di Philip Glass e di tanti altri pioneri della musica, che resero vivo ed esplosivo quel decennio.
Abbiamo chiesto a Celiodie di parlarci dei suoi esordi, di quel periodo storico e dell’attuale panorama musicale. Un excursus lungo 30anni di esperienza:
Benvenuto Franco, puoi dirci quando e come nasce Elicoide?
Avevo circa 26 anni quando cominciai a utilizzare dei suoni dal timbro metallico molto brillante che ottenevo con un nuovo strumento elettronico uscito in quegli anni, il Yamaha DX7. Il brano principale di quell’album cominciò a prendere forma in un periodo particolare del 1986, durante l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina. Anche allora, per motivi diversi da quelli di oggi, ci fu una fase in cui era sconsigliato uscire di casa e passare del tempo all’aperto. Proprio in quel periodo stavo studiando come assemblare piccole cellule ritmiche e melodiche arricchendo via via lo spazio ritmico. Una delle mie fonti di ispirazione era il Gamelan, un’orchestra tradizionale composta perlopiù da metallofoni tipico dell’area di Bali e Giava.
Il modo in cui quelle strutture ritmiche si assemblavano e si arricchivano le une con le altre mi faceva pensare a quello che accade nelle catene del DNA e nella sintesi proteica e questo spiega i titoli che diedi ai brani che compongono l’album. Per questo poi cercai per la copertina una disegnatrice che al tempo si occupava di illustrazioni scientifiche, e che oggi è una affermata designer.
– Bene, e come si è trasformato questo progetto in Celiodie?
Si può dire che Celiodie è una ricombinazione di Elicoide esattamente come la parola è un anagramma dell’altra. Quello che ho ricombinato è il fascino ancora immutato delle sequenze ripetitive e ipnotiche ma combinato con altri piaceri musicali che nel tempo mi hanno accompagnato. Voglio citarne uno in particolare, Remain in light dei Talking Heads, un disco dell’inizio degli anni 80 che è rimasto per me un faro. In quell’album si usano ritmi africani ispirati soprattutto a Fela Kuti, e la coniugazione tra melodie minime ripetute e ritmi danzanti africani dovrebbe essere una delle cifre principali di questa ricombinazione. Sta tutto qui il sogno di un rito di guarigione dall’angoscia e dal vuoto: coniugare ipnosi, danza, mondo intimo e riti collettivi.
– Si può dire che tu provieni da molto lontano. Hai iniziato a fare musica verso la fine degli anni ’70. Puoi raccontarci quel periodo storico?
Posso raccontare quella che fu la mia esperienza di quel periodo, e forse quella di una parte della mia generazione. Venivamo da anni veramente difficili, personalmente e socialmente, segnati però da una fioritura musicale senza precedenti, il progressive Rock che dalla fine degli anni sessanta alla prima metà degli anni 70 ha inondato il mondo di opere ancora oggi insuperabili. Avvicinandosi agli anni 80 però quella fioritura musicale stava mostrando tutti i segni della decadenza, di una trasformazione in qualcosa di più leggero e banale. In realtà eravamo tutti stanchi di pesantezza e di anni difficili… l’inizio degli anni Ottanta ci illuse di poter vivere con più leggerezza e più gioia. Fare canzonette o fare un rock essenziale e divertente non era più un peccato e in tanti vi si dedicarono. Io invece, proprio alle porte degli anni 80, scoprii la musica di Steve Reich, uno dei padri assieme a Philip Glass del minimalismo musicale di quell’epoca. Fu quella per me la rivelazione del nuovo decennio. Portavo nel cuore i ritmi caldi dei Talking Heads ma amavo ascoltare le lunghissime opere di Steve Reich. Un altro album che segna una delle mie personali pietre miliari di quegli anni fu il quarto album di Peter Gabriel solista.
E quali differenze trovi tra allora ed il panorama musicale attuale?
Parlare di differenze è riduttivo. Parliamo di un’era geologica fa. Parliamo di un mondo che non esiste più e parliamo di fenomeni che allora erano inimmaginabili e oggi sono predominanti sulla scena musicale. Un altro aspetto rilevante è la potenza delle tecnologie. Oggi è possibile creare un album con una qualità assolutamente professionale senza muoversi dalla propria scrivania mentre allora per quanto già esistessero ottime dotazioni elettroniche, era ancora necessario recarsi in studi professionali per poter confezionare un master che potesse essere distribuito. Oggi anche un ragazzino può creare un lavoro che va su Spotify e Youtube Music. Quello che credo sia andato perso è lo spessore artistico e l’amore per le creazioni profonde. La musica fatta per vendere, per ottenere successo esisteva ovviamente anche allora, ma oggi la logica di mercato, e quella del LIKE facile ha sostituito virtualmente tutto il resto. Se registro un ruttino o un grugnito, ma poi quello che ho fatto piace, magari solo perché fa ridere, ecco che può diventare virale e cambiarmi la vita. Questo non era possibile allora, per quanto alcune avvisaglie già ci fossero.
– Circa 30anni fa il tuo album ha riscosso molto successo, diventando un cult per molti appassionati – “uno degli holy grail del collezionismo musicale”. Soprattutto in Giappone e Stati Uniti. Poi una lunga pausa durante la quale ti sei dedicato alla tua attività come psicologo.
Per essere più precisi devo dire che l’album del 1987 ebbe una prima iniziale risonanza grazie a circuiti di distribuzione fisica (perché internet era ancora assolutamente di là da venire), e per quanto distribuito in un piccolo numero di copie ha coperto virtualmente un po’ tutto il mondo venendo recensito soprattutto in Giappone Stati Uniti e Canada. Non fu però possibile mantenere alta l’attenzione e ci fu un periodo piuttosto lungo di silenzio e oscurità. In effetti nel tempo si è risvegliata l’attenzione per quel lavoro fino a farne diventare un oggetto di desiderio per i collezionisti. Le fortune dell’album storico non sono ancora finite: è imminente l’uscita su tutte le piattaforme di streaming grazie alla scommessa dell’etichetta USA Mexican Summer – Anthology Recordings.
Quanto hanno influito i tuoi studi nella realizzazione di questo nuovo album? Ascoltandolo c’è molto di introspettivo… Ritieni sia una caratteristica già presente nei tuoi primi dischi, o questa influenza della psicanalisi sulla tua musica nasce in tempi più recenti?
La mia passione per la psicologia ha un’origine molto lontana sicuramente contemporanea ai miei primi lavori musicali. D’altronde proprio negli stessi anni pubblicai un libro assieme a un docente del DAMS di Bologna sulla psicologia e la Sociologia della musica. Quello che ho sempre cercato nella musica era l’esternazione di stati d’animo, mondi interni, visioni e sogni intimi. In queste visioni ha certamente un posto importante la dimensione meditativa e ipnotica. Questo è un aspetto che mi ha sempre caratterizzato. Tra gli stati d’animo più frequenti e comuni nella mia musica c’è senz’altro un aspetto contemplativo, malinconico, crepuscolare, che credo attraversi pressoché tutta la musica che ho creato. D’altronde la dimensione che preferisco per creare è assolutamente la notte, il chiuso del mio studio, le luci basse, il silenzio. e ho sempre visto la musica come una Grande Consolatrice, una voce dolce che viene a trovarci nelle nostre difficoltà e tristezze e ci dice che non siamo soli, che il nostro sentire ha un senso e permea il mondo.
– WET: è un punto di arrivo dopo anni di carriera, oppure una ripartenza?
Direi che è un po’ di entrambe e insieme nessuna delle due. La ripartenza è stata assegnata dal contatto con un appassionato e discografico romano che con pazienza e tenacia mi ha rintracciato e ha portato con un lungo lavoro alla ristampa dell’album del 1987 nel trentennale della sua uscita cioè il 2017; dopodiché c’è stato un concerto a Milano al Macao nel giugno 2018 che è stato un ritornare su un palco dopo non meno di 20 anni di silenzio, ritrovando anche Paolo Grandi, il contrabbassista che suona in due tracce dello storico Elicoide, e i cui contributi sono sparsi anche in Wet. Una volta ripartito ho ripreso in mano molte cose, molti progetti, e rispetto a questi Wet rappresenta certamente anche un punto di arrivo, ma vorrei che fosse soprattutto un nuovo inizio.