Per sapere come sono fatti i momenti che precedono l’ascolto di un vinile occorrerebbe essere o diventare un collezionista di vinili, oppure ancora chiederlo ad uno di quei folli collezionisti feticisti che abitano il nostro vituperato pianeta.
Tale stramba combriccola di umani avrebbe certamente cognizione d’argomento e saprebbe parlare opportunamente di quell’operazione, a proprio modo lussuriosa, che è “mettere un disco”, quell’operazione che taluni abnegati dell’oggetto e dell’arte amano condurre con calma, relax e soddisfazione.
L’operazione, neanche a dirlo, è preceduta tuttavia da una ricerca. Nessuno ha, o dovrebbe avere, “un” solo disco in casa quindi si rende necessario “cercare” e “scegliere”. Si tratta allora di cercare tra le colonnine sottili delle copertine degli LP, quello che accompagnerà la mente per quel pomeriggio o quella serata.
Si dovrà raggiungere quindi lo scaffale e lì una moltitudine di dischi, spesso totalmente sconosciuti alla maggioranza della progenie di Adamo ed Eva, è pronta a farsi scorrere rapidamente sotto le docili dita.
Scorrono, i polpastrelli, quelle tante coste di cartoncino colorato mentre gli occhi accompagnano la memoria nella disamina di sottili immagini in sfilata.
Visualizziamo pure il momento. All’improvviso, e quasi certamente più d’una volta, ci si fermerà venendo attraversati dalla tentazione di sfilare un disco e ricordarsene, rigirarlo nel palmo delle mani ispezionandone fronte e retro, scavando nella memoria e cercando di svelarsi ancora una volta il mistero di un nome e di un’opera d’arte quasi mai aiutata da una piccola copertina a rivelare il proprio contenuto.
Difficile allora resistere alla tentazione di estrarre quel cerchio delle meraviglie perché quest’ultimo beneficia di una più attraente natura vinilica uniformemente nera ma percorsa da sottilissimi ed affascinantissimi microsolchi in cui sembra essersi ritratta l’anima della musica che vi è contenuta.
Ci si racconta: “Oggi ho preso questo LP che mi intriga parecchio ma che non ho idea di che cosa sia”.
Ma cosa è accaduto prima che l’LP fosse acquistato?… una magia! Riviviamola. Siamo finalmente in quel negozietto di dischi che volevamo visitare da un bel po’ e scorriamo tra le stigliature. Sfiliamo un album e lo ispezioniamo intensamente e con ansia, tentando di rivelarcene il segreto che certamente da qualche parte dovrà custodire.
Talvolta, e non si vede l’ora che accada, l’opera è totalmente sconosciuta sia agli archivi che al padrone d’essi. Difficile allora sapere cosa sta per accadere. Si cerca di capirne ancora e meglio. Si cerca qualcosa riguardo la paternità, la nazionalità, la musicalità…
Il nome è intrigante. La copertina è satura di colori caldi e qualcosa di simile a due lenti la riempiono come a rappresentare soglie che due piccole, indistinte figure sembrano voler attraversare.
La scritta dice “Oust Louba” e “Décoction”. Esitazione. Andare verso la cassa o riporre lo sconosciuto quadrato per continuare ad agitare le dita impegnati nel proprio lavoro di ricerca musicale? Esitazione ancora.
Ecco arrivare però la decisione. Sappiamo tutti quant’è bello a volte lasciarsi andare per far rifiorire i sensi grazie al piacere d’una nuova scoperta. Una volta nella propria caverna, poi, ci si lascia docilmente agitare dall’adrenalina ed aprire un disco comprato per pura intuizione.
Sei già con il tuo dodici pollici in mano e ancora ti chiedi, prim’ancora di adagiare la puntina sui suoi solchi, come saranno le sue vibrazioni e se andrà a prender posto e polvere nei tuoi scaffali con gli altri tanti suoi pari, oppure se il suo ruolo si limiterà all’aver illuminato soltanto una giornata con la sorpresa d’un misterioso incontro.
Questa volta però così misterioso, l’incontro, non rimane troppo.
Infatti emerge che gli OUST LOUBA (4 musicisti ed una musicista) sono una giovane band vincitrice in terra di Francia del premio per giovani talenti nel 2004, capace, più di un centinaio di concerti dopo quel fortunato riconoscimento, di concentrare gli sforzi per sfornare il proprio album di debutto, “Décoction” appunto.
Ora conviene sedersi, la luce della stanza finalmente si piega, adagiandosi sulle orecchie e regalando i primi secondi di “Les Hullules”. Un tappeto accogliente di violoncelli si rivela con grazia, subito accompagnato da una ritmica asciutta ma non tagliente, tanto che ci si lascia sorprendere dal sovrapporsi del canto umano che, in un francese soave, recita gentile con tutti i propri compagni d’armonia fin quasi a danzarne insieme. Poi tutto s’invola.
Senza cadere nella magniloquenza, si può dire che si è trattato di una piccola dimostrazione d’intenti ma dal potere quasi sterilizzante. Il pezzo è introduttivo, ben masterizzato, l’atmosfera è inebriante eppure senza preavviso, si scivola in uno stato d’animo sempre più in ombra. Una chitarra minacciosa si impone su tutto almeno finchè non si sporgono sul proscenio alcuni scratches impavidi ed incisivi… é un piacere iniziare inclinati così. All’inizio si cercano istintivamente degli appigli, poi non più.
Scorre il tempo. Con stupore, il disco sembra stazionare su “Qui Respire?”, il secondo titolo del lavoro che si sostanzia assai semplicemente di uno stato di continuità naturale col suo piccolo fratellino che lo precede. Il terzo titolo, “15h56”, permette di areare la stanza e di cambiar d’umore, il tutto con un’interruzione immediata, improvvisa e quasi brutale.
Eppure davanti abbiamo un’atmosfera libertina che è tutta un piacere. Si potrebbe credere d’essersi infilati in un disco di Truffaz, con quella tromba impertinente a fer gli sberleffi ai sassofoni. Il ritmo si è agitato e ora sembra flirtare con una formella di “Drum and Bass”, producendone un Jazz fumoso da night club. Divertente, Eccellente.
Più avanti i ritmi diventano pressanti, quasi sordi, elettronici. Il contrabbasso trotta, mentre il turntablist articola i propri scratches a dovere donandosi di buon grado al suo ruolo e senza cadere in inutili acrobazie.
Un suono sporco interferisce in campo per connettere i bordi degli attori e delle azioni in svolgimento. Tutto è misurato alla perfezione, un vero piacere, soprattutto nel “bombardamento” finale… Ancora una volta il disco glissa sul suo brano successivo, “Maurice 2000”, senza preavviso e la transizione poi sarà quasi impercettibile anche su “La Femme Elastique”, un pezzo che un Kid Koala d’annata non avrebbe certamente saputo negare a nessuno.
Attenzione appresso però perché si parte per le alte sfere della beatitudine con “Where’s?”, che dopo un’irruzione improvvisa farà planare i suoi seguaci per 8 minuti abbondanti e defatiganti.
L’esperienza rimanda dritta dritta al volo sperimentato su quegli aerei speciali detti “Zero Gravity” che regalano gli effetti ineguagliabili dell’assenza di gravità, dopo averti però strizzato impietosamente in salita a gravità doppia.
Un pianoforte sussurra pian piano e poco a poco, autentica tortura vinilica, le sue meditazioni, non identificate e forse non identificabili, mescolarsi le une alle altre su corde triple che non sono là a far altro che a sostenere tutto con pazienza e pertinenza… s’è trattato di un lungo e bellissimo decollo che ci ha spedito direttamente tra le nuvole e che poi ci ha abbandonato a noi stessi, mandandoci a morire consapevolmente su un rovo pungente di percussioni tribali.
“Daar” si rivelerà assai meno immediato spingendoci in un vicoletto secondario ed insicuro tra rock e ska.
Il mondo fin lì creato poi, sembra ancora una volta capovolgersi in un clima di fanfara decadente per il caracollare d’un pezzo vilipeso, striato da scratches e strappi vari a campare su pessime tovaglie da fiera di periferia.
Canti religiosi cadenzano sullo sfondo fino a trascinarci via e lanciarci in un Maelstrom sonoro severo ma coerente, lontano tanto da venir infine pervasi da un piacere mefistofelico, tanto si rivela forte il chiaroscuro che ci ha conteso e tanto oscilla tra toni oppressivi ed accoglienti la foresta che ci ha rapito.
L’album si incammina verso la propria conclusione con l’imponente “En Décoction”, anch’esso sospinto su una lunga salita d’oltre 8 minuti, in cui tutti gli ingredienti di quest’avventura si cercano un’ultima volta per contorcersi insieme in una sarabanda di strumenti a fiato, di percussioni libere, di scratches piazzati, di voci fantomatiche, cosicché, rimanga ben impresso in questa didascalia finale e nel cuore di chi legge, si possa assistere al brillare magistrale degli Oust Louba, campioni eletti, a furor di sensi, di compiutezza, accuratezza e precisione musicale.
La loro musica si autoposiziona infondo in un quartiere poco abitato tra il post rock progressivo e l’elettro-jazz acustico, con fioriture astratte di hip-hop e d’un elettro-dub gentile e di buona tenuta. Tutte le transizioni sono ben lucide a beneficio della fruibilità ed il gruppo coerente e preciso malgrado la pluralità interna.
Gli ingredienti ci sono tutti e sono tanti quanti dovrebbero essere e dove, senza deficitare né debordare, senza pavoneggiamenti o fronzoli…
Qui non troveremo alcune corde guaire per far piangere i più fragili, qui non troveremo bande roboanti, come avviene in altre “piccole” iniziative, con penosi attacchi di super-ego per farsi notare.
Qui, semplicemente, il sostegno d’ogni elemento è preso a tutore del funzionamento dell’intero collettivo. Non vedrete mai il DJ cadere miseramente in un test di resistenza del tunnel carpale da 10 scratches al secondo. Interverrebbe tempestivamente, qualora per assurdo fosse, la batteria con accuratezza e discrezione non a correzione ma a sostegno. Non un merletto da queste parti, ma un vero e proprio impianto sonoro cesellato a mano e rifinito con oro zecchino.
Qualcuno, fra cui chi scrive, preferisce i pezzi più lunghi, quelli nei quali la voce lascia il posto alla tromba, al sax o al contrabbasso, perché, si, gli Oust Louba non sono mai tanto intriganti come quando ogni componente si prende il proprio tempo ed il proprio strumento per ribaltare la realtà circostante ed ottenere un mondo “inverso” in cui girare un po’. è esattamente questo il movimento di brani come “15 h 56” o “Mauritius 2000” con i loro titoli per lo meno misteriosi.
Quando si parla di questi OUST LOUBA si parla di giovani e buoni artigiani e di buoni compagni di lavoro che lasciano presagire vite ad alto contenuto aggiunto.
Niente da rimproverare con un sonoro rimbrotto allora?… Non proprio. Per quanto i nostri artisti siano ricchi, il decotto ha un proprio limite: la sua durata… 45 piccoli minuti! Si tratta davvero di un tempo troppo piccolo per un genere che si presta così bene a voli di fantasia.
Brani come “Where’s”, “Daar” e “En décoction” lo dimostrano facilmente perdurando più d’una emozione e conoscendo l’arte di far salire la pressione ed il calore. Bisognerebbe prenderne insegnamento! Solo irritante per eccesso di maniera c’è parso “Ma Fleur”, tanto per non prendersi troppi complimenti tutt’insieme. E poi, si dovrà per forza pensare a DJ Shadow come a qualcosa di più “organico”, mi sento intrallazzare in silenzio ripercorrendo mentalmente le tappe di questo “Décoction”.
Come detto ci si appoggia un po’ al jazz, un po’ al Trip Hop, un po’ al Post Rock, ma sempre con stile, talvolta quasi troppo. Ma come farne una colpa ad un gruppo di tale equilibrio e di tale qualità.
E chi non ha paura di lasciarsi inviluppare nei pezzi di questa band, come oramai sempre più raro, sottolinei bene quegli splendidi 8 minuti come fosse a monito, e si prenda bene tutto il tempo necessario a perdere ancora terreno e tempo per quei quadri sonori.
E se di lucidità fosse rimasta ancora una spanna che possa servire a chiedersi come sia possibile che gruppi di tale qualità versino ancora in un avvilente anonimato. Ma, si badi bene, non di deflagrazione mediatica qui si va cercando ragione, come ad esempio accade per quelle ridicole e parossistiche vignette tutte “stars and white limousines”, ma più semplicemente d’un successo di stile e di stima che consenta almeno un piccolo posticino nei negozi di dischi un po’ più grandi.
Ma basta ora, si vada quanto prima ad ascoltare le due splendide coppie di pezzi “Les Hullules” / “Qui respire?” e “15h56” / “Maurice 2000” per assicurarsi di persona e senza ombra di dubbio quanto fin qui confusamente cincischiato.
Amar