Gli anni ’90 non sono ancora giunti al giro di boa, eppure le travi di casa Guns N’ Roses già scricchiolano pesantemente: la band si riunisce in studio e litiga in continuazione. Se non si litiga, significa che ognuno è a farsi i fatti propri lontano dagli altri. Izzy sbatte la porta e non tornerà più, nel 1996 Slash è definitivamente stufo dei continui scontri con Axl anche per un semplice bicchiere di birra, decidendo così di prendere Les Paul in spalla e salutare col dito medio alzato. L’unico povero Cristo che non ha davvero colpe e che vuole solo suonare nonostante non sopporti la spocchiosità del nuovo arrivato Paul Tobias (sostituto di Izzy), Matt Sorum, viene cacciato in quanto reo di pensare troppo al suo progetto parallelo Neurotic Outsiders e non ai Guns; una scena che irrita persino Duff McKagan, fino ad allora ancora stoicamente (?) rimasto a bordo del treno impazzito: ciao ciao con la manina e via.
Da quel momento passeranno ben 12 anni prima che gli ormai sempre più rari negozi di dischi possano mettere in bella mostra un nuovo album su cui si legga il nome Guns N’ Roses. Inizialmente Axl avrebbe voluto chiamarlo “2000 Intentions”, poi, in fase di scrittura (anzi, di riscrittura, dato che già nel 1994 con i suoi ormai ex amici aveva iniziato a buttare nero su bianco qualcosa, ma tra divergenze d’opinione e “convergenze illegali” non uscirà mai nulla di buono o decente) parla di democrazia cinese. “Chinese Democracy”. Gli piace come suona, cambia dunque il titolo del disco. Di materiale ce n’è parecchio: un demo è pronto, serve solo entrare in studio, una limatina di qui, una limatina di là, fare la selezione definitiva di una decina dei trenta provini e registrare per bene. È il 1999, tutto sembra procedere per il meglio, la Geffen prende fiducia e continua a finanziare i “nuovi” Guns affinché pubblichino l’album il prima possibile. C’è voluto un po’ ma alla fine, dopo lo tsunami che ha sconvolto il gruppo, è più che giustificato.
La fine del Millennio, tuttavia, non verrà festeggiata con “Chinese Democracy” nei negozi: Axl è un perfezionista, vuole modificare qualcosa, vuole pensare studiare meglio la fase di mixaggio. Litiga con i membri, li butta fuori, li rimpiazza e fa registrare le stesse parti. Vuole però fare di più: ogni musicista deve contribuire con le proprie capacità, con la propria creatività. Axl farà poi il resto, prendendo tutto, mescolandolo, rendendolo proprio e trovando la chiave di volta più consona per il suo gusto. Sembra un controsenso, ma è null’altro che un altro modo di interpretare la spasmodica ricerca di ispirazione e della novità. Ricerca che, di contro, regala crescente insofferenza attorno al progetto. Non basta una comparsata su Mtv col volto tirato letteralmente a lucido, facendo quel sorrisetto da furbetto (chiamatelo, se volete, da amabile figlio di puttana) e dicendo a mezza bocca “Round 1 concluso” facendo credere che “Chinese Democracy” sia ormai lì lì per uscire. L’intenzione c’è, il materiale pure. Cosa diavolo manca allora? Stabilità.
Non mancano certezze: materiale ce n’è, in abbondanza, negli anni è stato accumulato, modificato, scartato, ripreso, riarrangiato e oramai il grosso è fatto. Manca stabilità, mancano quelle fondamenta solide per cui chi gravita attorno ad Axl si senta gratificato. I continui cambi di formazione hanno fatto entrare la band nel tremendo circolo vizioso creato da quel pregio/difetto proprio di mister Bailey: cercare ispirazione da chi gli è attorno. Ottimo, ma pessimo al tempo stesso.
Gli anni passano, i soldi pure, gli “Ormai ci siamo” somigliano sempre più agli “Al lupo, al lupo” del bambino della nota favoletta, “Chinese Democracy” stesso sembra più una favoletta che una realtà seria. I pezzi ci sono, alcuni oramai sono parte stabile (ironico, vero?) della scaletta dei concerti, ma sembra tutto così dannatamente inconsistente. Talmente inconsistente, che alla fine gli anni non passano più, gli anni son già passati, l’attesa è davvero quasi finita. È il 2006, internet è croce e delizia dei musicisti più affermati, e grazie (o a causa) del peer to peer spuntano fuori alcune demo, talmente ben registrate da reputarsi praticamente brani cui manca solo il mixaggio definitivo. Canzoni pronte, a cui manca quella patina magica prima di uscire. “Chinese Democracy” c’è. Quasi. È tangibile. Quasi. E quel “quasi” si tramuta in speranza, speranza che l’attesa divenuta ormai vera e propria agonia finisca. Un Sebastian Bach qui, una limatina lì, e il tempo che pareva esser giunto rimanda ancora un po’ l’appuntamento.
Già. Rimandare. Arriva il 2008, molti tra coloro che attendevano con ansia un nuovo album targato Guns N’ Roses oramai hanno cambiato interessi, si sono sposati, hanno messo su famiglia, oppure continuano la loro vita come se fossero ancora ventenni sbarbatelli pur avendo sul muso il muro dei quarant’anni. Una cosa però accomuna molti di loro: che “Chinese Democracy” esca o non esca, oramai, non frega più di tanto. L’interesse, minimo, c’è ancora, ma è, appunto, minimo. Più che interesse, curiosità di vedere cos’ha combinato Axl Rose in questi 14 anni. Questo sentimento è talmente esteso che persino i piani alti della casa discografica non si strappano i capelli per organizzare una promozione decente, non ci sarà neppure un video tratto dall’album, e nell’era del digitale e della fruizione liquida e veloce della musica non è fare harakiri, ma è proprio schiantarsi contro un muro di cemento armato credendo di uscirne indenni, al massimo con giusto un graffio o due. Invece… Circa 500.000 copie negli Stati Uniti, meno di tre milioni e mezzo di copie vendute in totale in tutto il mondo. Cifre piuttosto basse anche per l’era digital.
Il disco non ha venduto perché brutto, perché non rispecchiava le aspettative? Non esattamente. Certo, “Chinese Democracy” non è un album capolavoro, ma non è neppure questo pattume che molti da anni cercano di far credere. È semplicemente un album discreto, con pezzi tutt’altro che malvagi accostati da altri che, una volta passati alla traccia successiva, fuggono dalla memoria a breve termine. Un album di transizione insomma, come è giusto che sia. O meglio, come è giusto che sarebbe stato se fossero passati quattro, cinque anni dal caotico split con i membri storici della band. Il fattore tempo è stato il vero mietitore di Axl e del suo lavoro: se Duff dice serenamente che ha ascoltato il disco e gli piace parecchio, se persino Slash afferma che “Chinese Democracy” è la realizzazione di ciò che Axl aveva in mente da parecchio tempo e che è contento che sia riuscito a pubblicarlo perché con la vecchia formazione e con lui ancora nei Guns non sarebbe mai potuto accadere (e non per una questione di qualità, bensì per una mera questione di influenze e gusti musicali), qualcosa vorrà pur dire.
Il guaio, il grosso guaio di “Chinese Democracy” è che si sono create aspettative enormi sul suo conto. Giustificate, perché chiunque si aspettava grandi cose, soprattutto quando scatta il ragionamento “Se ci impiega così tanto, o è un capolavoro, o una schifezza“. In questo ragionamento, tuttavia, non vengono prese minimamente in considerazione le sfumature, dove invece il disco dovrebbe giustamente trovar posto. Troppo tempo in studio, vero, ma anche troppa intransigenza verso un lavoro che qualcosa ha comunque da dire, se non altro tra le righe: non è un disco vero e proprio, bensì lo specchio di Axl in quei 14 anni con i suoi pro e i suoi (tanti) contro, il riflesso di Rose e del suo voler tenere sotto controllo tutto. Tutto, meno che il tempo.
Andrea Mariano