Il gruppo de “Le Orme”, uno dei gruppi più longevi del rock italiano, è stato di importanza autenticamente seminale nella confusionaria pletora italiana di giovani formazioni e di nuove proposte che aveva caratterizzato l’arrivo del rock in Italia negli anni 60 ed il suo sviluppo nella decade successiva.
La direzione che aveva preso il rock nello “Stivale” era malferma ed incerta, completamente succube delle note in arrivo dalla Terra D’Albione e dal Nuovo Mondo da cui importava singoli brani di cui poi al massimo si permetteva cover ed improbabili traslitterazioni.
Le pavide etichette discografiche italiane del tempo, d’altra parte, non ambivano che a vendere vinile. Lo scopo delle band, di contro, era quello di “farsi conoscere ad ogni costo”. Le Orme inizialmente altro non poterono fare che seguire quella scia.
Il nome originariamente scelto dal gruppo fu “Le Ombre”, in omaggio agli inglesini degli Shadows, poi semplificato in “Le Orme” per via di alcune sgradite assonanze dialettali venete.
Dopo la pubblicazione dei primi singoli e dopo qualche cambio nella formazione seguì, nel 1968, l’incisione del primo album intitolato “Ad Gloriam” che, come suggeriva il titolo, era già in partenza considerato dalla band, un po’ per celia un po’ per scaramanzia, come un’incisione fatta solamente “per la gloria”, visto l’alto grado di rischio commerciale dell’operazione.
Fatalmente, i timori della band non vennero smentiti dai fatti e l’insuccesso del disco causò la fine dei rapporti con la piccola eppur lodevole etichetta italiana “Car Juke Box”, dell’editore Carlo Alberto Rossi, che l’aveva patrocinato insieme ad altri dischi come “I Santoni” o “Laser”, oggi divenuti nel circuito collezionistico “pezzi” leggendari.
Dopo la pubblicazione di “Ad Gloriam”, un’altra serie di avvicendamenti nella line-up del gruppo fecero traghettare la giovane formazione, oramai ridottasi a tre elementi, negli anni 70.
Ecco gli anni 70 quindi, nulla nel mondo sarebbe rimasto com’era, davvero nulla!
E con la sua nuova formazione a triangolo, considerata “classica”, le Orme erano praticamente pronte ad affrontare la storia: Aldo Tagliapietra (basso, chitarre, voce), Tony Pagliuca (organo, tastiere), Michi Dei Rossi (batteria, percussioni).
Fu il tastierista Tony Pagliuca a muovere le acque nel team. Intuì l’oramai definitivo tramonto del fenomeno “beat” ed il sorgere del nuovo pop sinfonico proveniente dall’Inghilterra.
Su tutti determinante rimase l’uscita di qualche anno prima dell’album “Days Of Future Passed” dei Moody Blues che aprì, anche se ancora timidamente, prospettive inesplorate e luminosissime a tutto il mondo del rock, mostrando le nuove ed ardite vie del cielo a giovani indomabili musicisti men che scalmanati.
Tony Pagliuca avrà conferma delle sue intuizioni nel suo primo viaggio a Londra dove si immerse negli innovativi scenari locali del rock e dove incontra Armando Gallo, un giornalista della nota rivista italiana specializzata di rock “Ciao 2001” che lo introduce nella tormentata Londra delle velleità post-Beatlesiane ravvivata da gruppi come “The Nice” (che vantavano all’organo un certo giovane talento tastieristico chiamato Keith Emerson), “Quatermass” (con il loro memorabile disco dallo pterodattilo tra i grattacieli in copertina) e “Yes” (con la loro “different cover” americana del debut album a cui saranno dedicate le ultime tra queste righe).
Dalla ribollente Londra poi, Tony Pagliuca, passa a bagnarsi i piedi anche sull’Isola di Wight per vedere di persona come fossero fatti i nuovi abiti del rock al Festival del 1970, giunto in quell’anno alla sua terza edizione, dove, davanti a più di 600 mila giovanotte e giovanotti inebriati di libertà, salirono sul palco, avvicendandosi fra tanti, anche tre speranzosi musicisti appena messisi insieme e chiamati Emerson, Lake e Palmer a presentare una versione rock tratta dal meraviglioso spartito pianistico intitolato “Quadri di un’esposizione”, meravigliosamente orchestrato da Ravel, composto circa un secolo prima da un signore russo morto alcolizzato ed in perfetta povertà, Modest Mussorgsky.
Dal coraggio pionieristico di quell’esibizione Pagliuca, definitivamente illuminato, trasse nuovi insegnamenti di cui far tesoro una volta di nuovo in patria.
Tornato nella Serenissima pieno di idee e di novità da sperimentare, Tony convince i compagni della band (Aldo Tagliapietra e Michi dei Rossi) a lanciarsi a capofitto nello sviluppo di nuove sonorità e di nuovi linguaggi musicali.
Tutto sembrava pronto per il grande passo ed anche la musica giovanile del belpaese quindi in quel 1971 si stava lasciando definitivamente contagiare dal vento rivoluzionario che veniva dalla lontana “Londinium”, come la chiamarono i fondatori romani, città sempre all’avanguardia in molti ambiti, non ultimo quello del rock.
Le Orme firmano quindi un contratto con una rispettabile multinazionale come la Philips Records con la quale realizzano il singolo “Il profumo delle viole” e l’album “Collage”.
Rispetto al precedente album “Ad Gloriam”, “Collage” costituiva uno strappo drammatico ed epocale. L’album venne realizzato (anche nella scrittura delle musiche) con il contributo decisivo del produttore musicale Gian Piero Reverberi ed oggigiorno, all’alba del terzo millennio, è convenzionalmente considerato da tutti il primo disco di rock progressivo italiano, autentico apripista di quel nuovo e “nobile” genere di rock che a brevissimo termine avrebbe colonizzato tutta la penisola.
Il disco fu davvero esplosivo, caratterizzato com’era dalle nuove e complicate sonorità, sature di organo, pianoforte e tastiere (tra cui il Clavinet con i suoi dolcissimi suoni di clavicembalo).
La batteria era divenuta anch’essa cantante ed aveva abbandonato la modesta veste di mero strumento di segnatempo ritmico. Il basso osava persino divenire tuonante.
Nuovi ed audaci anche i temi trattati: il brano “Era inverno” trattava in modo davvero nuovo un tema “caldo” come quello della prostituzione mentre “Morte di un fiore” parlava di una morte violenta per droga.
Diverrà una cifra costante del gruppo la scelta di affrontare in modo nuovo ed autonomo, temi psicologici e sociali scottanti all’epoca. “Cemento armato” introduceva poi, ante litteram, l’argomento ecologico.
Tutti le liriche del disco sono a firma di Tony Pagliuca ma la regina dell’album è senz’altro la musica, le cui partiture sono invece state vergate da Gian Piero Reverberi ed Aldo Tagliapietra.
Questa la sequenza dei brani dell’LP (con la durata tra parentesi): Lato A: Collage (4:49); Era inverno (5:05); Cemento armato (7:13); Lato B: Sguardo verso il cielo (4:19); Evasione totale (7:01); Immagini (3:03); Morte di un fiore (3:05).
L’album si apre con il brano che dà il titolo all’intero album, “Collage”. Le toccate introduttive e l’incedere martellante dell’organo Hammond di Pagliuca hanno certamente paternità anglofone (lo si è detto e scritto molte volte) ma la diffusione di quelle note in terra italica ebbe l’effetto di un’autentica deflagrazione.
Il breve ma efficace tema narrativo del brano lascia emergere tutto il suo valore anche nell’indomito arrangiamento, con un’apposizione di pianoforte che fa venire il sangue alla testa oggi, figuriamoci in quei primissimi anni 70.
Breve ed azzeccato sipario, poi, per un Clavinet che recita a proprio modo un barocchissimo e napoletanissimo Scarlatti, qui in una veste davvero nuova perché ad essere accompagnato da basso, batteria ed Hammond il geniale Domenico non l’avrebbe mai neanche lontanamente pensato. Si accoda nel finale un’infiorata di ottoni, tutti da gioire e da vivere. “Collage” insomma è un pezzo senza tempo il cui corpo è quello dell’enfasi ma il cui spirito è certamente più audace, potendolo ascrivere soltanto alla categoria del trionfo.
Il brano a seguire è “Era inverno”, titolo che introduce benissimo la sottile voce in falsetto di Tagliapietra e la natura struggente dei ricordi d’amore. Il filtro del Leslie rende ancor più irreale la malinconia di quella vocalità che sembra rincorrere fantasmi fugaci. Il rondò marciabile d’intramezzo acuisce il senso del grottesco e la disperazione dell’amore sanguinante ed illuso per una prostituta.
A chiudere la prima facciata del disco arriva poi, con la sua pioggia perlata di pianoforte, “Cemento armato”, un “classico” delle Orme, una splendida cavalcata, libera ed acida al punto giusto, in cui finalmente i giovani del tempo, alzando la testa, potevano identificarsi e cominciare ad interrogarsi sui temi dell’ambiente in cui si vive e della struttura della società urbana contemporanea.
Anche da temi di questo tipo nacque nel nostro Paese l’aspra contesa, che avrebbe occupato poi tutto il decennio, tra giovani rivoluzionari e vecchiume reazionario. Il tragico epilogo è noto a tutti. A causa di autogol, Rivoluzione 0, Reazione 1.
Suvvia, però, è tempo di “girare” il vinile (operazione oggi priva di senso) per ascoltare la seconda facciata.
Il lato B dell’LP si apre con una autentica “hit” del gruppo, “Sguardo verso il cielo”, che con i suoi innumerevoli passaggi radiofonici annunciò a tutta la penisola settantiana la nuova cifra stilistica delle ORME.
Rigoglioso e sintetico manufatto progressivo, prim’ancora che il termine stesso di “progressivo” fosse stato “inventato”, “Sguardo verso il cielo” è fatto di quattro minuti abbondanti di agonia spirituale profonda, attualizzata magistralmente. Versi come “Ecco un altro giorno come ieri…” ed anche “…La forza di sorridere, la forza di lottare, la colpa d’esser vivo e non poter cambiare… come un ramo secco abbandonato che cerca inutilmente di fiorire…” sono qualcosa dal forte e dolente richiamo ribelle che trova però soluzione nell’arco spirituale stesso da cui sembrava fiorire… e quindi “Uno sguardo verso il cielo dove il sole è meraviglia, dove nulla si fa mondo, dove brilla la tua luce…” sono versi che possono esser letti come autocelebrazione individualistica o come inni esegetici. Dipende dal riferimento di quel “tua”.
Ammettiamolo pure: Il tormento e la costernazione del movimento rivoluzionario coevo di fronte a tali testi forse ci stavano tutti.
La musica tuttavia incalza e tutto trascina, le note sono urlanti ed il loro richiamo naturale è potente ed inevitabile.
Arriva “Evasione totale”, con il suo recitativo “open form” e con un duttile Hammond quasi in sordina, scomposto da un arcaico effetto Binson Echorec, che emette taluni rimandi in direzione della meravigliosa scuola italiana sperimentale e contemporanea del 900, seconda a nessuno, nemmeno a quella pur importantissima di Darmstadt.
“Immagini” e “Morte di un fiore”, poi, sono i due brani che chiudono il disco e che sono l’uno il contrappasso dell’altro. Pastello tenue l’uno e affresco drammatico l’altro. Moderno “lieder” discendente l’uno, inquietante ed elettrico crescendo l’altro.
“Morte di un fiore” infatti è quasi la cronaca poetica del ritrovamento del cadavere di una ragazza che senza gloria e senza epitaffio abbandona la vita ricevendone soltanto il dolcissimo inno delle Orme con i suoi corni naturalmente e meravigliosamente celebrativi. Corni belli così si potranno ascoltare solo alcuni anni più tardi dagli avvincenti ma semisconosciuti “Maxophone”.
Le Orme, insomma, hanno scritto per “Collage” una musica densa e cangiante, una musica con andamenti imprevedibili, con assoli spiazzanti ed armoniche modularità sinfoniche, una musica capace tuttavia di scorrere fluidamente e con una naturalezza vincente quasi come fosse una canzone d’ordinaria pulsione vitale.
A differenza di altri gruppi contemporanei e conterranei, che pure stavano cercando più che onestamente di formulare una propria espressione sincronizzata, la sensazione che dava “Collage”, anche a posteriori, era quella di trovarsi di fronte ad un linguaggio già codificato e non per improvvisazioni stratificate o per serendipità.
Quando si ascoltano i brani di “Collage” o di alcune rielaborazioni organistiche di Pagliuca, lo spirito dell’ascoltatore viene sospinto a levitare in un mondo “attuale”, certamente, ma inspiegabilmente fatato.
Questo, forse, il motivo del successo, non solo commerciale, di “Collage”. A poche settimane dalla sua pubblicazione, infatti, l’album della Philips aveva già conquistato il terzo posto nella classifica italiana di vendite, e questo non doveva rivelarsi che l’inizio soltanto.
Altrettanto vera, ed in autentico controcanto al successo però, richiede, per dovere storico, d’essere menzionata anche la costante idiosincrasia che il movimento giovanile politicizzato del tempo riservava alle Orme di cui non accettò mai quelli che considerava moduli pietistici e paternalismi mal assortiti.
Presi a bersaglio dalla critica movimentista degli anni 70, Le Orme tuttavia, oltre al pregio indiscusso di sdoganare in Italia un genere già rivoluzionario di per se e pur in evidente stato di contraddizione con lo spirito politico giovanile dei tempi, poterono vantare la dote d’essere incontrovertibilmente dotati di capacità tecniche e comunicative non comuni.
Questo, naturalmente, non impedì alla band di pagare il pegno delle proprie scelte bollate come “borghesi”, per quanto da un altro punto di vista, e forse principalmente per questo, la rese capace di sopravvivere indenne (non senza una certa intelligente furbizia) alla fine del movimento stesso e delle sue utopie.
Tony Pagliuca, Michi Dei Rossi ed Aldo Tagliapietra, che li si ami o no, hanno fatto solidamente parte della storia della musica rock italiana: progressivi per primi, alternativi all’occorrenza, astuti sempre e non poco.
E poi, per dirla tutta, la prassi di tener insieme brani autenticamente innovativi ad altri più conservatori non abbandonerà mai l’onesto gruppo della Serenissima, nemmeno nel terzo millennio con lo splendido lavoro “La Via della Seta”, traguardo temporale invidiabile e raggiunto onorevolmente seppur rocambolescamente.
La copertina di “Collage”, infine, merita un’osservazione conclusiva ed è indirizzata a collezionisti vinilmaniaci della prima ora (e sarebbe sempre utile tener bene a mente l’importanza “sostanziale” che rivestivano a quel tempo le copertine degli LP) visto che ritrae il nostro terzetto (con Michi Dei Rossi in soave avamposto e con una croce di ferro in braccio) come figure ieratiche e spettrali a vagare in pieno giorno in un cimitero, immagine direttamente ed in modo evidente “ispirata” alla copertina dell’edizione americana del primo disco degli “Yes” uscito nel 1969.
Amar