HYPE

Philip K. Dick: “Un oscuro scrutare”

Philip K. Dick scrive “Un oscuro scrutare” nel 1977, dopo aver vissuto una fase di misticismo religioso e aver passato l’ultima decade della sua vita a cercare di decodificare e capire una serie di visioni avute sotto l’effetto del Sodium Penthothal (un anestetico), dopo un intervento ai denti

TITOLO: UN OSCURO SCRUTARE (A SCANNER DARKLY)
AUTORE: PHILIP K. DICK
ANNO: 1977
TRADUZIONE DI: GABRIELE FRASCA
CASA EDITRICE: FANUCCI EDITORE

“La vita è soltanto forte e nient’altro; c’è soltanto quel viaggio, ed è forte. Così forte che porta alla tomba. Per tutti e per tutto.”

Philip K. Dick scrive “Un oscuro scrutare” nel 1977, dopo aver vissuto una fase di misticismo religioso e aver passato l’ultima decade della sua vita a cercare di decodificare e capire una serie di visioni avute sotto l’effetto del Sodium Penthothal (un anestetico), dopo un intervento ai denti. Esperienze mistiche e visionarie ben rappresentate anche in altre sue opere, in particolare nella “Trilogia di Valis”. Ciò che si evince però dai suoi lavori, oltre al misticismo, è il crollo emotivo, mentale e psichico che negli anni assale l’autore. Una sorta di esaurimento nervoso, con tutta probabilità accentuato e slatentizzato dall’abuso di droghe.

Dick, come tanti altri autori di fantascienza (tra tutti Marion Zimmer Bradley) è stato un personaggio controverso e molto particolare, spesso indigente e senza un soldo. Si è sposato varie volte, raggiungendo la fama solo dopo la morte avvenuta nel 1982, grazie anche allo splendido adattamento cinematografico del suo romanzo ora più celebre: “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, divenuto il Blade Runner del grande Ridley Scott. Primo dei tanti a riconoscere il talento dickiano e l’ottima resa cinematografica delle sue opere, dopo di lui altri registi hanno messo in scena adattamenti dei suoi racconti, tra gli altri: “Atto di forza”, “Minority Report” e lo stesso “Un oscuro scrutare”.

Ambientato nel 1994, “A scanner darkly” è in realtà uno spaccato della controcultura degli anni ’70, periodo in cui viene steso il libro, tra protesta sociale e droghe pesanti. Sotto l’eterno sole della California del Sud, dove la notte è illuminata forzatamente delle luci al neon dei centri commerciali e dal riverbero dei televisori che non vengono mai spenti, l’oscurità non è mai esterna, ma diventa esclusivamente interiore e il lettore viene calato nelle paure più profonde di una società consumista, nel pieno del suo collasso emozionale e intellettuale.

“Robert Arctor si fermò. Osservò attentamente il suo pubblico, quel branco di perbene nei loro costosi vestiti, con le loro costose cravatte e le scarpe costose, e pensò: La Sostanza M non potrebbe mai distruggere i loro cervelli, non ne hanno nemmeno un po’.”

“Un oscuro scrutare” resta, iniziando come un innocente poliziesco, il romanzo che nello svolgersi degli eventi rivela la sua natura di intimo racconto delle esperienze realmente vissute dall’autore negli anni della sua tossicodipendenza. Bob Arctor, aka Fred, è un detective della narcotici sotto copertura che, dopo tanto tempo passato nell’ambiente di spacciatori e tossici, non è più molto diverso da coloro che deve tenere d’occhio. Il senso di perdita dell’identità è palpabile già quando, nelle prime battute, Arctor/Fred si cimenta come relatore durante un incontro sul degrado della società in un elegante Club dell’Orange County. Il protagonista indossa una tuta disindividuante, indumento che gli permette di lavorare proteggendo la propria identità. La tuta ha la caratteristica di proiettare, agli occhi dell’osservatore, caratteristiche fisiche e dei volti di milioni di soggetti diversi: uomini, donne, bambini, creando un’immagine generica e confusa, tale da essere impossibile da ricordare e descrivere. L’immagine dissociata e indistinguibile creata dalla tuta è la stessa che produce come effetto collaterale maggiore la Sostanza M (Substance D, Death), o Lenta Morte. Questa è la misteriosa droga sulla quale Bob è impegnato ad indagare: deve scoprire chi la produce, chi la spaccia e chi la assume. Nel farlo si ritroverà egli stesso a farsi di Sostanza M, nella disperata necessità di rimuovere per sicurezza la sua stessa personalità, fino a cadere in un vortice di paranoia e disturbi della personalità che lo porteranno, grazie a sofisticate apparecchiature a sorvegliare anche se stesso, al momento topico in cui il suo scrutare diviene sempre più oscuro.

“Gli agenti finivano progressivamente col prendere a loro volta la stessa roba che spacciavano, assumendo così pienamente, com’era naturale che fosse, quello stile di vita. Diventavano in tal modo ricchi spacciatori tossicodipendenti, pur restando agenti della narcotici.”

Dick affronta così il motivo squisitamente letterario del “doppio” e della crisi d’identità, tema già affrontato da maestri come Stevenson e Poe, e della follia presente soprattutto nel “Re Lear” shakespeariano, rifacendosi anche al protagonista orwelliano di 1984, che afflitto da paure e paranoie tenta di combattere il potere del Grande Fratello osservatore.

L’autore è chiaramente il protagonista, Arctor, per assonanza l’attore della commedia che è la vita (come ne “Il berretto a sonagli” di Pirandello), un Bob qualunque e palindromo che cerca di districarsi nelle maglie del mondo e della droga, in una collettività dove il volto spietato del potere poggia le sue fondamenta di presunta verità sulla menzogna. Una società in cui la liberazione della mente, che solo le sostanze allucinogene sembrano permettere, queste altro non sono che una nuova e peggiore caduta nel buio, dove il sé si dissolve e si confonde nell’oblio di un’artificiale indifferenza.

“Per sopravvivere in questo fascista stato di polizia devi essere sempre in condizioni di pensare a un nome, il tuo. In ogni occasione.”

Paradossale è quindi la consapevolezza che la mente di un pazzo (come re Lear) può funzionare con maggiore lucidità di quella di coloro che dovrebbero occuparsi del bene comune. Dunque una denuncia, come è tradizione del genere distopico al potere corrotto e al governo, in cui il mondo di A scanner darkly appartiene allo stesso senza speranza che Beckett mette in scena in Finale di partita e che sicuramente ha in qualche modo ispirato il nuovo filone letterario che da qualche anno appassiona i lettori young adult, quello della nuova science fiction e dei nuovi romanzi distopici.

Tanti personaggi transitano per l’appartamento di Fred, chiunque abbia mai vissuto in tempi moderni e fuori da una campana di vetro, anche senza farsi, conosce qualcuno come Barris, l’utente/pusher che sostiene di avere conoscenze specialistiche e che si sente quasi un chimico nel tentativo di portare avanti i suoi progetti speciali, come sintetizzare cocaina dal contenuto delle bombolette spray. Riconoscibilissimo è anche il personaggio di Luckman, l’amabile fattone che probabilmente sarebbe il miglior compagno possibile, se uno mai decidesse di avere un trip, o Donna, ragazza saggia e allo stesso tempo perduta.

Ad un occhio non attento, potrebbe sembrare che il romanzo di Dick si limiti ad essere una propaganda anti-droga e nulla più, mentre invece è una sorta di epitaffio in cui i protagonisti sono proprio i suoi ex amici, morti o rimasti gravemente invalidi dalle sostanze di cui hanno abusato, dei quali fa un elenco proprio alla fine del romanzo. Amici che ispirano i personaggi sbagliati, i “bambini” perduti, che hanno fatto l’errore di pensare di poter correre nel traffico senza rischiare di essere investiti dalle macchine in corsa, dalla vita, dalla droga.

Lo stesso Dick, nella nota finale del libro, dichiara:

“Quello che avete letto è un romanzo che riguarda alcune persone che sono state punite eccessivamente per quello che hanno fatto. Volevano divertirsi, ma si comportarono come quei bambini che giocano per strada, che per quanto possano vedere come ciascuno di loro, l’uno dopo l’altro, rimanga ucciso, travolto, mutilato, annientato, non per questo smettono di giocare. Per un certo lasso di tempo tutti noi siamo stati davvero felici, seduti qua e là senza faticare, semplicemente cazzeggiando e giocando. Ma questo lasso di tempo è stato terribilmente breve e la punizione che ne è seguita è stata al di là di ogni immaginazione; e anche quando infine la vedemmo abbattersi su di noi, non riuscivamo a crederci.”

Ma, una lettura veramente completa di “Un oscuro scrutare” può essere data solo tenendo ben a mente l’ispirazione che Dick trae, per il titolo del romanzo, dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi in cui si dice: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa (now we see through a glass, darkly); ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco il mondo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità.” Una realtà che quindi non corrisponde alla totale conoscenza del reale, ma che di esso dà solo una visione parziale e offuscata. Nulla per l’autore è quindi reale, in quanto l’umanità non ha ancora raggiunto quella conoscenza che solo Dio può infondere all’uomo, e che può essere raggiunta solo dopo la morte. Si può scrutare la realtà costantemente, si può studiare un fenomeno ricorrendo a tutti i mezzi e a tutte le conoscenze scientifiche, ma secondo Dick solo Dio la conosce veramente, rendendo oscura l’identità del protagonista, ma anche l’oggetto della sua eterna ricerca.

Francesca Romana Piccioni