Erano i tempi del grunge, delle camicie di flanella a scacchi, degli anfibi e dei capelli lunghi. Un gruppo, grazie anche a MTV, portava tutta la sua rabbia in vetta alle classifiche musicali. Il volto indimenticabile di Kurt Cobain divenne presto il simbolo di una generazione. Nella lezione di oggi parleremo dei Nirvana, come avrete certamente compreso, e del loro “Nevermind”, capolavoro indiscusso della formazione.
Tra i tanti fan della band, il nostro prof. di oggi, Matteo Gabbianelli dei kuTso, rimase a tal punto folgorato dalla potenza di Dave Grohl, da decidere di iniziare a suonare la batteria.
– Ricordi la prima volta che hai ascoltato i Nirvana?
A 13 anni vidi in televisione il video di una band che spaccava gli strumenti e esternava il suo spirito punk anarchico sulle note di una canzone carica di energia. Il video in questione era quello di “Lithium”, io rimasi così folgorato dall’energia e dalla follia dei Nirvana che decisi di lì a poco di imparare a suonare la batteria.
– Se si pensa ai Nirvana, si pensa automaticamente al grunge. Puoi spiegarci le caratteristiche di questo genere musicale?
Il grunge, a metà strada fra il punk, l’hardrock anni ‘70 e il metal, era caratterizzato dal rifiuto categorico dei mediocri modelli proposti dallo starsystem e dei clichet della luccicante società mondana degli anni ’90. Chi si sentiva diverso e anticonformista ascoltava i gruppi grunge, formati per lo più da ragazzi vestiti con jeans strappati, camicie di flanella, anfibi ai piedi, capelli lunghi e sporchi. Si trattava spesso di gente taciturna, perennemente scura e trasandata.
– Cosa ti affascina della figura di Kurt Cobain?
Kurt Cobain sul palco trasmetteva rabbia e frustrazione, trasformandole durante i concerti in divertimento e delirio collettivo; era portavoce più o meno consapevole del senso di inadeguatezza dei ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni di allora. È riuscito a diventare una rockstar, nonostante assumesse un atteggiamento antieroico e lontano dalla retorica del musicbusiness; inoltre ha scritto delle grandissime canzoni, potenti, estremamente melodiche e mai banali, che sono ciò che mi affascina maggiormente.
– Come mai hai scelto di parlarci di “Nevermind”? Pensi sia il capolavoro della band?
Nevermind è uno di quei pochi dischi della storia della musica leggera, che sono composti quasi interamente da canzoni di successo. Il disco contiene 12 gemme musicali, potenti e ariose, che con irruenza, disperazione e commovente “gioia infinita”, indirizzano l’ascoltatore al “nirvana” appunto. La mia vena creativa prende spunto da questo disco, che avrò ascoltato centinaia di volte, emozionandomi ad ogni ascolto. La copertina, dominata dal colore azzurro, ritrae un neonato nudo, immerso nell’acqua di una piscina, che insegue una banconota da un dollaro. Questa immagine rispecchia perfettamente il carattere “acquoso” dell’album, che nasce da arpeggi di chitarre elettriche imbevute di “litri di chorus” e melodie intensamente fluide, in contrasto con l’acidità del sound distorto nei ritornelli e nelle aperture. La copertina è anche un manifesto chiaro di ciò che vogliono dire i Nirvana, ovvero una critica netta alla società dei consumi, caratterizzata da ipocrisia e perbenismo.
– Ci parli del contesto musicale in cui si colloca l’uscita dell’album?
L’uscita di Nevermind nel 1991, fu contemporanea al capolavoro di Micheal Jackson “Dangerous”, che è esattamente agli antipodi rispetto alla poetica dei Nirvana. Il re del pop fu inaspettatamente spodestato dalla band di Seattle al primo posto della classifica statunitense e da quel momento i Nirvana divennero un fenomeno mondiale. Era da poco finita la guerra fredda, l’anno prima c’era stata la guerra del Golfo e si era nel pieno dei conflitti etnici in Jugoslavia, dunque “Nevermind” rispecchia in pieno il clima di smarrimento e caduta di certezze di quell’epoca in cui tante illusioni erano ormai svanite.
– È il debutto della band con una major, la Geffen Records. Pensi che questo passaggio abbia influenzato il loro modo di scrivere?
Assolutamente sì, ma già il fatto di essere passati ad una major indicava la volontà precisa di raggiungere il successo. I Nirvana hanno dichiarato più volte di volere fare il “disco della vita”, dunque la svolta in senso “pop” era evidente, con brani brevi, semplici, diretti e una produzione di altissimo livello.
– È anche il primo album in studio con Dave Grohl alla batteria. In che modo la sua presenza ha contribuito a cambiare la personalità della band?
La batteria di Dave Grohl è stata determinante per il successo dei Nirvana; senza quella potenza, nonostante la bellezza dei brani, Nevermind sarebbe stato forse più anonimo, inoltre già all’epoca Grohl trasmetteva una carica spaventosa, che come me, avrà convinto altre migliaia di ragazzini a cominciare a suonare la batteria.
– Ai Nirvana non piacque il suono troppo pulito dell’album. Tu che ne pensi del suono di “Nevermind”?
Non sono sicuro di quanto le parole di Cobain e soci fossero mosse dall’insofferenza giovanile verso l’ingerenza della casa discografica e quanto invece fossero frutto di una ingenua “recitazione”, per non apparire come dei venduti agli occhi del mondo underground. Negli anni successivi Novoselic e Grohl dettero un giudizio diverso sulla produzione, che non ha snaturato a mio parere la forza della band, ma anzi l’ha amplificata. Io adoro il suono di Nevermind ed è un modello a cui ci siamo ispirati per i dischi dei kuTso.
– Si dice che in fondo non fossero degli ottimi musicisti. Pensi che il loro modo un po’ sporco di suonare abbia influito sul grande successo planetario?
Infatti non erano degli ottimi musicisti, ma degli artisti, ovvero qualcosa di superiore al semplice saper suonare. Oltre alla necessaria fortuna e qualche public relation giusta (Thurston Moore, cantante dei Sonic Youth portò i Nirvana all’attenzione della major Geffen), il loro successo è dovuto in buona parte al fatto che hanno inventato un modo di approcciare alla musica e hanno saputo interpretare un certo tipo di disagio giovanile.
– L’album contiene gran parte dei brani più famosi dei Nirvana. Qual è il tuo preferito e perché?
Sicuramente “In Bloom”, perché, oltre ad avere un Ritornello con la “R” maiuscola, è la sintesi perfetta di sofferenza, gioia, melodia, rabbia, ritmo, disperazione ed eroico Nulla.
– Cosa ci dici della ghost track?
È puro noise, adatto a quando vuoi sfasciare tutto, magari in condizioni etiliche avanzate. Nelle intenzioni dei Nirvana era probabilmente un escamotage per dire ai fan della prima ora: “guardate che non siamo cambiati”.
– Qual è la frase più bella che viene pronunciata nell’album?
I’m so happy because today
I’ve found my friends
They’re in my head.
– Cosa ne pensi del connubio MTV/Nirvana?
Ognuno, volente o nolente, ha recitato la sua parte. Il risultato all’epoca fu però emozionante, perché era forse la prima volta che sul palco di MTV saliva una band imprevedibile che avrebbe potuto mandare tutto a puttane con un colpo di scena inaspettato.
– E adesso veniamo a voi. Avete appena pubblicato un nuovo singolo “Grazie alla guerra”. Ce ne parli?
Quel brano è uno sfogo che ho scritto dopo aver ascoltato le ennesime esternazioni di quel coglione di Salvini e dopo aver letto le menzogne e semplificazioni di certa stampa populista sulla questione mediorientale; ho voluto racchiudere nell’ironia della canzone tutti i clichet di chi è a favore degli interventi armati occidentali in altri Paesi e di chi ha in testa lo stereotipo del mondo musulmano antagonista e retrogrado. Non abbiamo fatto promozione al brano, ma l’abbiamo semplicemente messo online. Nonostante l’argomento non sia forse dei più interessanti per le menti sopite italiane, la risposta del nostro pubblico è stata pronta e calorosa.
– Quando è prevista l’uscita del vostro nuovo album?
Non c’è una data, ma abbiamo già diciotto brani pronti, da cui selezioneremo una rosa di dieci canzoni che comporranno il disco. Roba forte comunque.
Egle Taccia