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QUBE GENERATION: Andrea Pazienza e i suoi amici nel nuovo disco di Marco Cantini

Sono dipinti e sono racconti queste 14 canzoni di Marco Cantini, ci troviamo in una Bologna del ’77, e quindi incontriamo Andrea Pazienza come nel video di lancio del singolo “Pazienza”… ma incontriamo anche Tanino Liberatore, Frida Kalho, Pier Vittorio Tandelli e tantissimi altri da rintracciare tra le righe delle canzoni e nelle pagine di storia vissuta

Titolo fuorviante in bilico tra “artistico-filosofico” e un gioco di parole estrapolando figure cardini dietro l’opera – perchè di opera parliamo – del cantautore toscano Marco Cantini. Il suo nuovo disco si intitola “Siamo noi quelli che aspettavamo”, pubblicato dalla Radici Records. Scena letteraria, quel certo modo di scrivere canzoni per narrare e non per giocare ai ritornelli facili, un lavoro che veste con merito e diritto i dettami del genere di riferimento: canzone d’autore. Sono dipinti e sono racconti queste 14 canzoni di Marco Cantini, ci troviamo in una Bologna del ’77, e quindi incontriamo Andrea Pazienza come nel video di lancio del singolo “Pazienza”… ma incontriamo anche Tanino Liberatore, Frida Kalho, Pier Vittorio Tondelli e tantissimi altri da rintracciare tra le righe delle canzoni e nelle pagine di storia vissuta… e ancora, l’emancipazione di classe, lotta contro il sistema… gli studenti… le università… la società operaia… l’Italia che scendeva per le strade piuttosto che cliccare MI PIACE sui social… come si fa oggi. Ebbene si… cogliamo l’ennesima sfumatura per dire la nostra. Ma questo disco di Marco Cantini certamente non ci ha lasciati indifferenti alla causa.

– Canzone d’autore e storia di generazioni ormai “antiche”. Cosa ti spinge a legare assieme queste due dimensioni?
Credo sia stato principalmente un desiderio di raccontatore: nel caso del mio concept le vicende di un professore, le sue velleità liberatorie unite al rifiuto dell’esistente, avrebbero potuto essere quelle di qualsiasi altra umanità repressa dentro schemi imposti da altri. E nella tramelogedia, nella drammatizzazione, c’è comunque un grande senso di appartenenza.

– In particolare… perché Bologna e perché proprio quel periodo storico?
Senz’altro non è stata un’operazione nostalgica, o un tentativo di idealizzare un recente passato per timore di affrontare il presente. Ma è chiaro come la scelta della città – e del preciso momento storico da cui la storia inizia – non sia stata casuale. Innanzitutto non si può ignorare l’importanza storica che ha avuto Bologna prima del disimpegno di massa: Bologna “la grassa e l’umana”, la città femmina, il nucleo caotico di sfasci a venire descritti da Pazienza ne Le straordinarie avventure di Pentothal. E persino “Bologna ombelico del mondo” nel ’77: quando ogni sera in Piazza Maggiore migliaia di giovani si ritrovavano, anche solo per il semplice gusto di stare insieme.

– Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli, Frida Kahlo. Perchè si trovano assieme a “condividere” il tuo lavoro?
Perché ognuno di questi personaggi, a modo loro e secondo le proprie capacità, ha prefigurato mondi alternativi. In questo, se vogliamo, molto allineati anche al pensiero di Ernst Bloch che a suo modo concepì il credo della generazione espressionista, considerando la tensione all’utopia un tema irrinunciabile di tutte le arti figurative.

– Racconti e cerchi di rivivere il tempo di grandi rivoluzioni. Un modo per scappare dal nostro presente? Ed è lì che vorresti andare/tornare?
Non vorrei tornare da nessuna parte. Se è vero che ogni nostalgia è una specie di vecchiaia, mi ritengo ancora sufficientemente giovane. In realtà, quando tre anni fa ho iniziato ad avere coscienza di questo nuovo disco, di come lo avrei voluto, tra le trappole sottolineate come “da evitare” c’era sicuramente l’elogio fine a sé stesso dell’epica rivoluzionaria, o la mitizzazione di categorie politicamente precostituite del recente passato. Ma forse – proprio oggi in cui gli anni dell’impegno politico obbligatorio vissuto come dovere sembrano essere appartenuti all’alto medioevo – tra le pieghe dell’album c’è anche un incitamento velato a riprendersi e rielaborare tutto, nonostante tutto: i sogni, gli ideali, persino i dileggi sdoganati all’epoca dagli indiani metropolitani negli anni in cui proprio il gusto dello sberleffo sembrava entrare a gamba tesa sulla serietà della lotta. E l’ironia non era riconosciuta come mezzo di espressione politica.

– Secondo te perché all’epoca c’era tanto fermento e soprattutto serviva a trasformare le cose?
Ogni forma di rivoluzione nasce da speranze di rinnovamento, dalla voglia di seppellire vecchi sistemi, nasce da terreni fertili di profonde lacerazioni interiori in cui ognuno si sente chiamato a presiedere alla realizzazione di un futuro migliore. Credo che comunque, all’epoca, ci fossero fondamenti elaborati da decenni sui vissuti personali, sulle coscienze libresche ed illuminate, e naturalmente anche sull’odio declinato in molteplici ambienti. Al di là di questo, ritengo sia più facile abbandonarsi all’originalità e al sentimento puro quando si esce segnati da anni di severe moralità e rigidità.

– Marco Cantini però nasce e vive oggi. La tua personale rivoluzione?
Forse la mia personale rivoluzione resta il desiderio incondizionato di trasformare il senso di catastrofe in condizione fondamentale per il riscatto.

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