Il concerto di presentazione del dodicesimo album di Marco Ongaro La spia che ti amava al Teatro Camploy per il festival “Verona in Love”
di Fabio Antonelli
Procedere alla recensione di un concerto dal vivo, soprattutto di un artista che non si esibisce frequentemente in pubblico, equivale un po’ a scrivere «Io c’ero», come fanno i milioni di innamorati che lasciano testimonianze sotto al balcone di Giulietta nella città scaligera nel corso dell’intero anno. Non a caso la presentazione del disco di Marco Ongaro La spia che ti amava, pubblicato dall’etichetta milanese Long Digital Playing, si è svolta a Verona nell’ambito del festival “Verona in Love” che intorno a San Valentino festeggia il ruolo ormai proverbiale della città nell’immaginario mondiale grazie all’immaginario shakespeariano.
Chi scrive c’era, in effetti, e come l’agente segreto cui il titolo allude fa regolare rapporto dell’accaduto. Ripassando la carrellata di emozioni dell’indomani, la prima a emergere, incastonata al centro del concerto, è legata a Quello che accadrà, canzone dedicata a Vittorio De Scalzi. Il brano chiude l’album ma non l’esibizione dal vivo in un momento solenne e commovente a prescindere dai riferimenti al cantante e autore dei New Trolls scomparso lo scorso anno, non espliciti nel testo. Anzi proprio in virtù della loro assenza, la canzone celebra un’universalità capace di allargarsi dalla dedica alla vita di chiunque, in una sorta di bilancio distaccato eppure palpitante che unisce l’uditorio nella partecipazione involontaria alla memoria di sé stessi. Un’elegiaca anticipazione della nostra improvvisa mancanza nell’istante esatto in cui si registra la nostra avvenuta presenza. Il tempo trascorso è intimamente suscitato in una contingenza che è già fuga e fusione, la piazza che “pare uguale ma è cambiata”, il “vintage al mercato del quartiere” e il “tu” che passa dal particolare all’impersonale come la canzone passa dal nome alla sostanza.
Tutt’intorno il concerto, dipanato nei dieci brani che precedono l’ultima canzone del disco, e nei rimanenti presi da album storici di Ongaro: Solitari, Hotel Bella Italia, Elena, Dio è altrove, Certe donne si amano, Non le importa. Per poi richiudersi sul brano di apertura, La spia che ti amava, il cui rock ‘n’ roll pare ora più ancheggiante sulle onde twist di Chuck Berry. E sono Le Cifre, il solido gruppo alle spalle e intorno a Ongaro, a sostenere l’andatura di un sound teso e guizzante, sul basso elettrico di Pepe Gasparini, anche arrangiatore del disco, la batteria rigorosa e frizzante di Gianni Brunelli e la chitarra di Pietro Franzosi, capace di creatività vorticosa e di impeccabile fedeltà, come nell’assolo revivificato dell’Hotel California tradotto dal cantautore veronese. Le due voci femminili, Lucia Corona Piu e Jessica Grossule, accarezzano e a volte sferzano il canto del front man, quasi a indicare il sentiero per poi farsi tappeto volante sotto la sua voce ruvida e calda.
Un concerto con baricentro sull’ultima canzone di un cd tutto da ascoltare, in sapiente alternanza tra potenza e delicatezza, ritmo e intimità, con un dosaggio di maschile e femminile che non si sentiva più dai tempi di Leonard Cohen. I due singoli estratti per i video, la title track e S.r.d. (Società a responsabilità disperata), lasciano spazio alla gioiosa scoperta degli altri brani non inferiori ma dissimili, roteanti insieme al disco tra nuance pregnanti che non esitiamo a definire poesia. E l’amore nel cui festival è inserito l’evento? C’è tutto, nelle sue forme più varie, dalla solidarietà all’eros, dalla simpatia al tormento dell’assenza, dalla felicità alla serena accettazione del suo passaggio. L’amore che esce dai cuoricini del cellulare, in cui non può che essere frainteso, per entrare nella vita reale, fatta molto più di canzoni scritte d’impulso che di serialità da intelligenza artificiale. Perché, come altrove Marco Ongaro dichiara, «Tutte le canzoni sono canzoni d’amore, alcune più di altre».
Fabio Antonelli | Foto: Stefania Tramarin su concessione dell’artista