Che ci sia un fermento nel sottobosco dell’indie, che pian piano sta sfondando qualsiasi barriera imposta dal mainstream, è ormai evidente dall’inizio di questo 2016, che certamente è stato l’anno dell’abbattimento delle barriere, quell’anno che ha permesso all’indie pop di venire fuori dai locali e approdare nelle radio, quell’anno in cui molte band hanno fatto la scelta coraggiosa di prendere una nuova direzione, sapendo che in questo modo sarebbero riuscite ad avere una possibilità per sfondare.
L’album e la band di cui mi accingo a parlare non sono da meno. “Marassi” degli Ex Otago si è imposto al grande pubblico già col primo singolo “Cinghiali incazzati”, poi il resto del lavoro l’hanno fatto “I giovani d’oggi” e “Quando sono con te”, tanto che Universal Music Italia ha puntato alla licenza esclusiva sull’album, pubblicato per Garrincha Dischi e Inri.
Era ovvio quindi che l’attesa per gli altri brani di “Marassi” fosse alta, soprattutto perché stiamo parlando di una band seguita principalmente da un pubblico di nicchia, band da cui non ci si sarebbe aspettato un cambiamento così radicale.
L’album è dedicato alla loro Genova, a un quartiere post moderno che fa da sempre sfondo alla loro vita. Proprio quel quartiere è il punto di partenza di questo viaggio in una nuova dimensione per la formazione. Sicuramente chi li conosceva dai precedenti lavori inizialmente potrà storcere il naso, ma ascolto dopo ascolto l’impronta distintiva della band verrà fuori chiaramente. Chi invece non li conosceva, magari perché abituato ad ascoltare ciò che passano le radio, potrà rimanere sorpreso da un nuovo modo di concepire la musica pop.
“Marassi” viene presentato dalla band come: “Il posto da cui è partito tutto, il quartiere dove sono nati e cresciuti, un serpente di strade che arrivano fino al rifugio in cui ancora oggi si ritrovano tutte le settimane a scrivere canzoni, mangiare insieme e suonare. Un quartiere che ben rappresenta i giorni nostri, un quartiere di supermercati e palazzi, di pini domestici e platani, di palestre di boxe e di zumba, di relazioni sull’autobus, di vita. Lo stadio e il carcere, indiscussi grandi monumenti. Gli anziani guardano i cantieri, i giovani fanno le impennate con lo scooter”.
Dalle prime note è chiaro che il sound di questo album sia lontano anni luce dai precedenti dischi. C’è un grande lavoro di produzione, l’elettronica ha preso il sopravvento. È un disco pop, di quel pop che ascoltavamo prima che i talent e la musica plastificata d’oltreoceano spazzassero via il nostro modo di concepirlo.
Che ben vengano quindi album così, album che hanno come unico obiettivo quello di colmare un vuoto nella musica, quella mancanza di musica orecchiabile, che però non sia banale nei testi e nel modo di essere portata al pubblico. Certamente chi fa parte di una certa nicchia dell’indie storcerà il naso davanti a questi progetti, ma credo faccia male. L’avanzamento di questo pop che viene dal basso è un bel segnale positivo per la musica italiana. I ruoli stanno pian piano definendosi, si sta riscoprendo che ciò che è pop non deve necessariamente essere banale. Si può ricominciare a proporre qualche testo più profondo, utilizzando dei suoni che piacciano ai più.
Su questa linea può certamente collocarsi “Cinghiali incazzati” che ci ha tenuto compagnia per tutta l’estate e che ha già aperto tante porte alla band. È un brano che viene voglia di cantare e che abbiamo cantato a lungo in questi mesi. “La nostra pelle” è un bel discorso con se stessi, accompagnato da suoni tra il tribale e l’esotico. Chi ama la chitarra non resterà deluso dai suoni di “Stai tranquillo”, forse il brano più vicino al passato della band. La electro ballad “Mare” ci fa rilassare un po’ al suono delle onde, ma poi l’album torna ad alzare i ritmi, ma senza esagerare.
Una caratteristica dell’album è proprio quella di tenere ritmi più alti dei precedenti, ma senza scadere nell’eccessivo e nel volgare.
L’amore, tema centrale del pop, in questo disco è solo sfiorato, non è semplice rintracciarlo nei brani, spesso si declina nell’amore verso se stessi. Credo che il punto focale di “Marassi” sia l’osservare il mondo che ci circonda. Si tratta di brani che si immergono in un’analisi molto dettagliata della realtà quotidiana e la raccontano come se venissimo accompagnati in un viaggio attraverso paesaggi e scenari sempre diversi. C’è il mare, la notte, il quartiere, la città…
“Sognavo di fare l’indiano” si trova a quel punto dell’album in cui capisci che non c’è un momento di calo, un brano sbagliato, o qualcosa fuori luogo. La sua cassa dritta ci riporta ai sogni dell’infanzia, con un testo da cantare già al primo ascolto.
“Ci vuole molto coraggio” è uno di quei brani in cui si afferma chiaramente la natura del disco: indie nei testi, pop nei suoni.
“Marassi” segna un nuovo percorso nel cammino degli Ex Otago, ma il loro background musicale risuona ancora nelle sfumature, nel modo non banale di utilizzare i suoni elettronici, nei testi per nulla scontati.
Ormai le tastiere hanno preso il sopravvento nella musica, hanno messo da parte le chitarre e sono le vere protagoniste. A questo punto si può rimanere fermi al palo oppure lasciarsi trasportare dalla nuova ondata di musica electropop targata indie. Gli Ex Otago in questo percorso escono vincenti, con “Marassi” hanno fatto centro.
Egle Taccia