INTERVISTE

L’intervista: alla scoperta di KATRES e del suo disco ARABA FENICE

Teresa Capuano, in arte Katres, è originaria di Catania ma si trasferisce sin da piccola a Napoli, in un mondo dove può finalmente proiettare le sue emozioni per poi scriverle, musicarle, cantarle e farle vivere in canzoni. Nel 2013 esce il suo primo album autoprodotto Farfalla a Valvole impegnandola in un tour di 150 date durato 2 anni, sia in Italia che all’estero.

Il suo ultimo album “Araba fenice” è un concentrato di melodie pop, soul, cantautorato e blues che aiutano a esprimere bene e in modo nuovo l’ingombrante concetto della caduta e della successiva rinascita dalle proprie ceneri. Non a caso la title-track “Araba fenice”, insieme a “La risalita”, è il simbolo della rinascita, è il ricostruirsi dopo la distruzione, dalle proprie ceneri, ché “ogni caduta è un passo verso la risalita”.

Incuriositi dai suoi testi, abbiamo pensato di rivolgerle alcune domande per conoscerla meglio e per farci raccontare le fasi più importanti della sua formazione.

– Quando hai capito di ricorrere alla musica come mezzo di espressione? Quando hai iniziato a suonare e cosa ti ha spinto a farlo?

Da piccola cantare era il mio gioco preferito, imitavo una mia zia cantante, il mio sogno era quello di diventare come lei. Crescendo ho iniziato a suonare prima il pianoforte poi la chitarra, all’età di 13 anni ho scritto la mia prima canzone, ho iniziato per gioco e non sono più riuscita a smettere.

– Quali sono gli artisti e i generi che hanno contribuito alla tua formazione?

La lista è lunghissima, ascolto tantissima musica senza mai fossilizzarmi su un solo genere o un solo artista, non vorrei annoiare nessuno quindi citerò solo alcuni degli artisti che negli anni ho amato e ascoltato con grande ammirazione: David Sylvian, Noa, Lucio Dalla, Billie Holiday, David Bowie.

– I tuoi brani sono molto personali e profondi. Per esprimerti ricorri anche ad altre forme artistiche?

No, non più, da piccola scrivevo racconti, poesie, cercavo il modo migliore per esprimermi attraverso la scrittura. Oggi posso affermare di averlo trovato nella forma canzone, compatta, potente e diretta.

– Quanto è importante per te raggiungere un proprio stile e una propria identità?

Trovo sia fondamentale, personalmente ho lavorato tanto sulla ricerca di un linguaggio che fosse solo mio, l’ho fatto con la chitarra non essendo una virtuosa, l’ho fatto con la voce cercando di sfruttarne al massimo ogni minima sfumatura e lo faccio con la scrittura cercando sempre soluzioni semplici ed efficaci per comunicare quello che voglio in maniera diretta, senza metafore, senza troppi inutili giri di parole.

– Ti senti più a tuo agio in studio o nella dimensione live?

Sono due dimensioni completamente diverse, in studio sprigiono grande creatività, cerco, così come nel live, di non perdere mai la concentrazione e di riuscire a trovare il modo più fluido e interessante per permettere a quello che voglio comunicare di venir fuori in maniera potente ed efficace. Nel live scopro quanto l’energia delle persone, ogni volta diversa, influisca sulla riuscita del concerto, ogni live è diverso, il contatto col pubblico mi da una carica enorme, mi fa sentire viva, da un senso a tutto quello che faccio e sogno di fare con la musica.

– Tra le tue esperienze e partecipazioni, quale ricordi con più soddisfazione?

Sicuramente quella al Premio Bianca d’Aponte. Era la prima volta che partecipavo a una competizione ed era la prima volta che portavo su un palco tanto importante una mia canzone. Ero molto immatura, avevo grandissime difficoltà a gestire l’emozione e quella sera, insieme al premio per la miglior composizione, portai a casa pure una lunga serie di cazziatoni, a farmeli furono  Lilli Greco, Gianfranco Reverberi e Kaballà. Per fortuna sono stata sempre molto umile e in quel momento fui (e sarò sempre) molto grata a questi tre grandi signori della Musica per i consigli preziosi che mi diedero, devo a loro e a Bianca l’inizio del mio cammino consapevole sulla strada che mi ha portato fino a qui.

– Araba Fenice parla di un’evoluzione che scaturisce dalla distruzione. Com’è stato rielaborare le esperienze vissute dinnanzi a un pubblico?

Araba fenice è un disco che nasce dalla necessità di raccontare un periodo abbastanza lungo e di grandi cambiamenti personali. C’è stato un momento in cui ho visto crollare tutto quello su cui avevo costruito le mie certezze. Ho attraversato un lungo periodo di buio totale e solitudine ma in quel vuoto ho ritrovato me stessa e la forza per rialzarmi, risorgere dalle ceneri e fiorire come non avevo mai fatto prima di allora. La fase di elaborazione l’ho vissuta durante la scrittura, quello davanti al pubblico, adesso, è un momento di grande e sincera condivisione.

Chiara Picciano