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L’arte che passa dalla chitarra invisibile di Kurt Cobain

Riflessioni sulla lettera che Kurt Cubain scrisse prima di morire, quel 5 aprile del 1994…

Di nuovo i Nirvana, di nuovo Kurt Cobain. Già mentre scrivo sento alcuni dei vostri pensieri: cosa altro c’è da dire su un gruppo e un artista su cui è stata detta praticamente ogni cosa? E poi, troppo facile, quando si parla di lui qualche click si rimedia sempre.

Prima i Nirvana, un gruppo che è stato letteralmente oggetto di adorazione per centinaia di migliaia di fan e che ha segnato senza ombra di dubbio la storia della musica. Poi il suicidio di Kurt Cobain, che ha sconvolto e che ancora oggi alimenta dibattiti e discorsi di ogni sorta. E come dimenticare poi la controversa Courtney Love e la figlia Frances Bean Cobain, che ricorda il padre – dicono – e forse non solo nell’aspetto. Molti si sono domandati quanto ci sia di lui in lei (se l’era domandato anche Kurt Cobain, auspicando che lei fosse diversa da lui), altri cosa si provi ad essere cresciuti senza un padre che però in fondo è stato una presenza costante nella sua vita. Una presenza – assenza, con cui fare i conti ogni giorno. E ancora il documentario Kurt Cobain: “Montage Of Heck”, di cui lei è una delle produttrici e il matrimonio segreto con il fidanzato che “Accidenti, quanto somiglia a Kurt Cobain!”.

E quante altre cose sono state scritte, quante riflessioni sono state fatte, tutte comunque per arrivare alla conclusione che si è detto tanto, forse troppo a volte.

Premetto che tutte queste cose non le ho mai seguite fino in fondo. Ho letto titoli, aperto qualche articolo che in qualche modo riusciva a suscitare la mia curiosità, come quelli relativi al documentario, ma ignoro quasi sempre i gossip, che non mi interessano più di tanto. Vi dico anche che non sono mai stata una vera fan dei Nirvana. Ovvio che io abbia ascoltato diverse cose, è una tappa forse inevitabile per chi in qualche modo ha a che fare con la musica o ne è appassionato. Non è mia intenzione, con questo articolo, esprimere in qualche modo un giudizio di merito e, forse, non ne sono nemmeno all’altezza.

I Nirvana c’è chi li ama e chi li odia. Non mi interessa parlare di chi secondo me ha ragione fra quelli che dicono che sono sopravvalutati e chi dice che sono uno dei gruppi più influenti di tutti i tempi. Sicuramente posso dire che, a mio parere, la verità è sempre più complessa di due posizioni estreme e che a volte lo sforzo di comprendere ed ascoltare molti dei punti di vista su un argomento ti può condurre ad arrivare più vicino alle risposte. Risposte che, in realtà, non si trovano mai del tutto e mai in assoluto.

Il fatto è che qualche anno fa leggevo il libro “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo” di Efraim Medina Reyes nel quale veniva raccontata parte della vita di Kurt Cobain. In questo libro veniva nominata la lettera che scrisse prima di morire, quel 5 aprile del 1994. Mentre leggevo la sua lettera, alcuni pensieri si affollavano nella mia testa ed ho deciso di metterli su “carta”.

La prima cosa che ho pensato è che quando leggi quella lettera arriva il senso di una vita, di un sogno che, forse, va in pezzi quando si realizza. Kurt Cobain. Personaggio difficile, tormentato e anche in questo, forse, consiste parte del suo fascino. I musicisti dovrebbero, in linea di massima, suonare per passione.

Ovvio che se poi con questa passione ci paghi pure le bollette, tanto meglio. Chi decide di intraprendere la carriera musicale mediamente auspica di poter fare di questa sua passione una ragione di vita, in tutti i sensi. 

Avere un pubblico, poter vivere della propria musica, diventa perciò un desiderio diffuso e, spesso, anche l’incipit di una bella fiaba. Ma nella vita quante volte capita che ottenere una cosa che avevamo desiderato a lungo non ci dia quella soddisfazione che ci saremmo aspettati? Non solo per il fatto che l’essere umano pone sempre il traguardo un passo più lontano rispetto al punto che ha raggiunto, ma anche perché certe volte, banalmente, le cose non sono come l’avevamo immaginate.

Allora capita di scrivere musica, suonarla per passione, quella vera e pura di chi vive per le note, iniziare su un piccolo palco e con un piccolo pubblico di persone di cui ricordi ogni singola faccia e, spesso, anche il nome per poi arrivare su un palco immenso e con un pubblico di cui non riesci nemmeno a valutare la grandezza e di cui non potrai mai ricordare tutti i volti o i nomi. Capita di essere pagati per suonare e di avere sempre più serate, capita di incidere il primo album, capita anche di essere riconosciuti per strada. Alcuni di quelli che leggono potrebbero pensare “Dove devo firmare?” ed io in linea di massima credevo che, in effetti, per un musicista non ci dovesse essere nulla di più bello.

Poi però ho letto quella lettera ed ho pensato che capita anche che quella che era una passione diventi un obbligo, capita di avere delle scadenze, di stare sotto pressione, di sentire sulla propria pelle le aspettative del pubblico come piccole lame che ti infliggono continui taglietti per ricordarti che devi dare di più, che qualcuno crede in te e non puoi deluderlo, che tu devi essere sempre grande, sempre all’altezza, mai banale.
Succede anche nella vita, mi direte. Sì, succede.

E può capitare anche per tutte le altre arti e le altre passioni che diventano un lavoro.

Accade, però, che tutto ciò fa di quello che per te era una passione qualcosa in cui non riesci più a riconoscerti, una sorta di Creatura che tu generi, ma su cui quasi subito perdi il controllo, un po’ come nel Frankenstein di Mary Shelley. La musica, l’arte in genere, richiede il coinvolgimento dell’artista. Non sono solo parole e musica, è un’emozione che viene trasmessa e per poter avvenire ciò questa deve essere stata provata prima di tutto dall’artista. L’artista coinvolge perché è coinvolto. C’è chi ha la fortuna che avvenga anche il contrario, di essere ad un certo punto coinvolto anche solo per il fatto di coinvolgere. Alcuni, invece, continuano a credere che la vera musica sia quella dei pochi volti fra il pubblico, di quell’emozione piccola ma che puoi leggere in tutti gli sguardi di quelli che ti stanno sentendo, semplicemente perché puoi vederli tutti, uno ad uno.

Indubbiamente sono scelte di vita personali, derivanti da un preciso modo di vedere la propria arte. Nessuna delle due è deprecabile o migliore dell’altra perché c’è chi è capace di rimanere fedele alla propria passione anche quando raggiunge traguardi importanti. Tenendo ben presente questa premessa, mi viene dunque da pensare che un po’ lo capisco Kurt Cobain, un po’ capisco il malessere di non avere più quel desiderio di trasmettere che è alla base della musica.

Nel libro che mi ha ispirato a leggere la lettera si diceva che Kurt Cobain, quando era piccolo, amava far suonare una chitarra invisibile quando non poteva far suonare quella vera, che le note suonavano nella sua testa e lui si lasciava trasportare da quella musica che solo lui poteva ascoltare. Si dice anche che non ha trovato più il coraggio di vivere nel momento esatto in cui si accorse di non saper più suonare quella musica invisibile, quella che era solo sua e di nessun altro, ma che in qualche modo aveva perso, forse proprio per il fatto di condividerla, di esternarla. Non so quanto ci sia di vero in ciò, ma mi piace credere che sia andata proprio così.

E allora mi piace anche pensare che sarebbe bello se ogni musicista avesse un proprio strumento invisibile, capace di trascendere le situazioni materiali e di andare al di là delle circostanze. Se ogni artista facesse suonare questo strumento ogni volta che ha bisogno di musica pura, astratta, essenziale. Quella musica che nasce solo per te e non conosce pubblico o ascoltatore così da rimanere sempre fedele alla propria essenza, con o senza fama.

Di seguito la lettera:

Parlo dal punto di vista di un vissuto sempliciotto che, ovviamente, preferirebbe essere un bambino snervante e lamentoso. Questa lettera dovrebbe essere abbastanza semplice da capire. Tutti gli avvertimenti della scuola base del punk-rock che mi sono stati dati nel corso degli anni, dai miei esordi, intendo dire, l’etica dell’indipendenza e di abbracciare la vostra comunità si sono rivelati esatti. Io non provo più quell’eccitazione nell’ascoltare o nel creare musica, nel leggerla o scriverla, da molti anni ormai. Mi sento in colpa al di là di ogni parola per queste cose. Per esempio, quando siamo nel backstage e le luci si spengono e inizia l’urlo maniacale della folla, ciò non mi fa lo stesso effetto che faceva a Freddy Mercury, che sembrava inebriarsi dell’affetto e dell’adorazione della folla. Questo è qualcosa che ammiro e invidio allo stesso tempo. Il problema è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto né per voi né per me. Il peggior crimine che mi possa venire in mente potrebbe essere fingere e far credere di divertirmi al 100%.
A volte mi sembra come se dovessi timbrare il cartellino prima di uscire sul palco. Ho provato ogni cosa in mio potere per apprezzarlo, e l’ho fatto, Dio credimi, l’ho fatto, ma non è abbastanza.
Ho apprezzato il fatto che io, noi abbiamo intrattenuto e colpito tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. Io sono troppo sensibile. Ho bisogno di essere un po’ stordito per riguadagnare l’entusiasmo che avevo da bambino. Durante i nostri ultimi tre tour ho apprezzato molto di più tutte le persone che conoscevo personalmente e tutti i fan della nostra musica. Ma ancora non riesco a lasciarmi indietro la frustrazione, il senso di colpa e l’empatia che ho nei confronti di ognuno. C’è del buono in tutti noi ed io penso che potrei semplicemente amare le persone ancora di più. Così tanto che questo mi fa sentire ancor più fottutamente triste. Piccolo, triste, irriconoscente. Gesù! Perché non ti diverti e basta? Non lo so!
Ho una dea per moglie che trasuda ambizione ed empatia, e una figlia che mi ricorda troppo me quando ero come lei. Piena d’amore e gioia, bacia ogni persona che incontra, perché tutti sono buoni e non le faranno mai del male. E questo mi spaventa a tal punto che perdo le mie funzioni vitali. Non sopporto che Frances possa diventare la miserabile, autodistruttiva rock-star che io sono ora. Mi è andata bene, molto bene e sono grato, ma da quando avevo sette anni ho cominciato ad essere avverso al genere umano. Solo perché alla gente sembra facile tirare avanti e provare empatia. Empatia! Solo perché amo e sono troppo dispiaciuto per le persone. Grazie a tutti dal profondo del mio bruciante e nauseato stomaco per le vostre lettere e il vostro interesse nel corso degli anni passati. Io sono molto più di un eccentrico e lunatico bambino! Non ho più la passione e quindi ricordate: è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

Pace, amore, empatia!

Kurt Cobain

“Frances e Courtney, continuerò ad essere al vostro altare. Courtney per favore continua ad andare avanti, per Frances, per la sua vita, che sarà più felice senza di me.
Vi amo! Vi amo! Kurt”

Si ringrazia Marta Melone per la traduzione.

Federica Ponza