Andrea Cavallini LIVE REPORT Villa Ada

La psichedelia sinfonica di Alan Parsons Project tra gli alberi di Villa Ada

E’ una pietra miliare della musica elettronica quella che apre il live di Alan Parsons Project a Villa Ada a Roma, dove nella perfetta scenografia naturale del luogo risuonano, tra gli alberi, le note di I Robot, album tra i più venduti della musica leggera del secondo Novecento e brano che segna il primo definitivo successo del più grande ingegnere del suono che la musica moderna abbia potuto vantare e che non ha bisogno di presentazioni. Ed è proprio da questa “etichetta” che  il compositore e musicista inglese si affranca in quel 1977: perché ricordare Alan Parson solo come il geniale “tecnico” dietro  al capolavoro assoluto dei Pink Floyd,  The dark side of the moon, sarebbe riduttivo come dimostra lo show presentato a Roma ieri, seconda delle quattro tappe del tour 2016 del gruppo, dove a parlare è la musica. La scenografia è infatti quasi del tutto assente e i fasci di luce e di buio che avvolgono il palco e i musicisti, non sono che l’esaltazione di un gruppo di fenomeni, che ha dato vita all’ultimo lavoro discografico The Alan Parsons Symphonic Project “Live in Colombia”, con la  Medellín Philharmonic Orchestra: Pj Olsson (voce), Alastair Greene (chitarra), Todd Cooper (sax), Guy Erez (basso), Tom Brooks (tastiere), Dan Tracey (chitarra) e Danny Thompson (batteria).

Se Sicilian Defence è stato un album (l’ultimo, pubblicato dopo molti anni, nell’antologico The complete albums collection) di rottura, fatto di sperimentazione pura e dissonanze dal difficile ascolto, la scaletta del concerto sembra proprio la più appropriata per celebrare i quarant’anni dall’uscita del primo “Alan Parson Project”, creato con Eric Woolfson. E Alan Parson infatti fa la sua comparsa sul palco con la signorilità e la sicurezza di chi non deve dimostrare nulla, ma generosamente regalare al suo pubblico (la platea era gremita di gente)  un grande concerto. E’, infatti, un live avvolgente, che ti riporta indietro nel tempo, a quel momento musicale che sta cronologicamente tra la psichedelia pura e il punk/post punk, che dava al progetto A.P. la sua unicità: Don’t answer me (dove a risuonare è il sax di Todd Cooper), I wouldn’t want to be like you, Time, Psycobubble, Games people play. I brani che lo hanno distinto, con quello straordinario sound che fonde la freddezza e puntualità delle sperimentazioni psichedeliche al calore del pop-rock melodico punteggiato da arrangiamenti e momenti sinfonici e classici – e c’è infatti silenzio assoluto e buio totale quando Tom Brooks illuminato da un fascio di luce bianca, si concede al pubblico nel solo di Prime time, inserendosi tra le “schitarrate” prodigiose di Alastair Greene.

Ad intonare i brani è per lo più la voce di Pj Olsson, che sembra talvolta ammiccare ai Genesis e Phil Collins; anche se al microfono si alternano quasi tutti i musicisti della band, compreso Alan Parson ovviamente, insieme a momenti corali delle voci tutte maschili, che riscaldano l’atmosfera.

Quarant’anni portati alla grande, anche se il musicista inglese ironizza su quanti ne siano davvero trascorsi prima di attaccare con Days are numbers. Ma la grande attesa è per i brani che chiudono il live e ai quali APP viene immediatamente associato, in un medley che li fonde ad arte: SiriusEye in the sky, intonata da Parson in persona. E invitata da Pj Olsson ad alzarsi per salutarlo come si deve, la platea, fino ad allora composta e seduta, è in piedi a godersi dei capolavori che oggi come ieri ci emozionano.

Lui ci saluta affettuoso, con un sincero “Thank you, goodbye and take care!”

Sara Cascelli | Foto: Andrea Cavallini