Federica Messa, in arte Mèsa, si è affermata ed è sbocciata tra le mani di Bomba Dischi con il suo primo album Touchè. La stiamo seguendo da tanto e l’abbiamo raggiunta per farci raccontare qualcosa in più del suo disco e di come vengano fuori queste canzoni molto lontane da ciò che ormai è diventato il canone di scrittura e sonoro di questi anni.
Mèsa riesce ad essere leggera e profondamente ancorata al suo modo di fare canzoni che è lontano e vicino, allo stesso tempo, al cantautorato classico italiano.
Cogliere l’attimo per non far svanire l’ispirazione è l’imperativo di Federica Messa (Mèsa) per raccontare storie fresche e vere.
– Il tuo è un disco molto diverso da quello che viene pubblicato oggi. Nel lavoro si sentono molti riferimenti anche al cantautorato classico. Quali dischi, libri hanno segnato la tua scrittura e il tuo suono, nel corso degli anni?
In realtà penso che nel mio disco ci siano meno riferimenti al cantautorato classico rispetto a quanti ce ne siano nei dischi “che vengono pubblicati oggi”. Il cantautorato soprattutto italiano io l’ho scoperto abbastanza in ritardo (De Andrè a parte). Un po’ di pezzi del disco però ne sono influenzati soprattutto a livello poetico…mi piace molto la libertà lirica di De Gregori che forse è quello a cui mi posso accostare di più, per esempio Rimmel e l’album della pecora li ho sentiti tanto. Ma anche Com’è profondo il mare, Lucio Dalla e Dalla sono tre dischi fondamentali. Anche Battisti, tantissimo.
Però ecco, se ti dicessi che sono i dischi che mi hanno cresciuta o fatto venire voglia di scrivere le mie canzoni, ti direi una bugia. Io sono cresciuta ascoltando un altro tipo di musica e per me il cantautorato classico è Joni Mitchell di Blue, Johnny Cash piuttosto che Elliott Smith o David Bowie.
Per quanto riguarda le letture, ho letto molta poesia soprattutto italiana da ragazzina e mi sono abituata quasi a pensarle in versi le cose anche se la maggior parte delle volte scrivo cose senza rima o metrica. Infatti il mio preferito è Ungaretti. Adesso sto leggendo la Szymborska.
– Nelle tue canzoni ci sono sempre tante piccole cose che vanno colte, tante sfumature. C’è qualcosa che hai raccontato e magari non avevi colto a pieno nemmeno tu prima della pubblicazione del disco?
In generale mi sono resa conto da poco che scrivo delle cose che seppur raccontino la quotidianità e non l’iperuranio, sono abbastanza contorte. Me ne sono accorta perché quando magari capita che mi chiedono di raccontare cosa ha ispirato un pezzo ho difficoltà a dirlo in maniera lineare, cioè in maniera diversa da come l’ho scritto.
– Cosa significa essere donna oggi nel panorama della musica indipendente?
Non so, credo non significhi molto. Scrivo le mie cose e le canto.
– Canzoni come Oceanoletto, dove è forte anche la componente strumentale, come sono venute fuori?
Quel pezzo là ce lo avevo da un annetto ma non lo avevo fatto sentire ai ragazzi con cui suono perché mi sembrava troppo breve a livello di testo, come se fosse incompleto. Poi in realtà mi sono resa conto che diceva quello che volevo dire in poche righe e niente, quando stavamo in studio a fare il disco l’ho suonata e loro mi sono venuti dietro e l’abbiamo registrata. È il pezzo su cui abbiamo lavorato meno e forse è il migliore.
– Come è cambiato il tuo approccio al sound, dall’inizio della tua carriera, dove immagino una canzone era “confinata” a te e la tua chitarra?
È cambiato molto ma alla fine mi ha portato verso casa cioè è stata una naturale evoluzione verso il sound delle cose che ho sempre ascoltato.
– Secondo te la musica, in particolare quella indipendente, ha smesso di raccontare la società e la rabbia delle persone che in passato erano, se non predominanti, comunque importanti?
No, non credo. Credo che ogni epoca abbia il suo modo di raccontare la società. Il non parlare della società è un parlare della società per come vedo le cose io. Cioè la società di oggi non è quella dei nostri genitori che hanno vissuto la politica in modo completamente diverso da noi, ma anche la famiglia, il lavoro… nelle canzoni “indie” c’è tanto precariato, affitti da pagare, rabbia.
– Nei tuoi brani è chiaro come tutto il processo di scrittura venga fuori quasi di getto. Le immagini che regali sono molto immediate. Qual è per te il momento più importante nella scrittura di una canzone?
Il momento fugace in cui capisco che c’è l’ispirazione perché come hai detto tu sono molto istintiva e devo cogliere l’attimo perché se mi metto al tavolo con la chitarra quando è passata difficilmente riesco a tirar fuori qualcosa che mi emozioni. Gira tutto intorno all’emozionarsi alla fine.
Gianluigi Marsibilio