La Woodworm Label è un’etichetta indipendente fondata nel 2011, ad Arezzo, da Andrea Marmorini e Marco Gallorini. È una delle più influenti del panorama italiano e vanta nella sua scuderia artisti del calibro di Paolo Benvegnù; Giorgio Canali; Giovanni Lindo Ferretti; Scisma; Dente; Appino; Umberto Maria Giardini; fino alle new entries Spartiti (Max Collini/Jukka Reverberi), Motta e Alì. Andrea Marmorini in questa intervista ci racconta come funzionano le cose all’interno di un’etichetta di questo tipo.
Con quale criterio scegliete gli artisti della vostra etichetta?
Fondamentalmente non c’è un vero e proprio criterio. Noi siamo un’etichetta discografica italiana e quindi operiamo prevalentemente in Italia. Il criterio più banale forse è quello che l’artista debba semplicemente piacerci. Se si fa una disamina sui nostri artisti, ci sono i Fast Animals and Slow Kids che fanno rock, Benvegnù fa cantautorato, i Juile’s Haircut che fanno psichedelia strumentale, non c’è una vera e propria “direzione artistica” in questo senso, non siamo un’etichetta di genere. I nostri sono artisti che, prima di tutto, sono veri animali da palcoscenico, con i quali poi ci troviamo davvero molto bene a livello di rapporto umano, e questo conta moltissimo.
Cosa sta a significare l’aggettivo “indipendente” legato alla Woodworm?
Per noi essere indipendenti vuol dire garantire la massima libertà all’artista in questione. Per essere pratico: se la Warner spende una cifra importante su un artista, vuole un ritorno. Quindi può prendersi la libertà di affiancargli un produttore artistico che liberamente influisce sui testi, sulle musiche. Sinceramente non la vedo come una politica del tutto sbagliata, ma è palese che rispetto a ciò che facciamo noi con la Woodworm ci siano evidenti differenze. A noi non è mai capitato fino ad ora, ma è normalissimo che un artista passi da una etichetta indipendente ad una major, e i motivi possono essere fra i più disparati. Tornando al concetto di indipendenza comunque, per noi coincide con l’assoluta libertà di espressione artistica.
In un momento storico in cui soprattutto in televisione non c’è praticamente nessuno spazio per la musica, quanta importanza hanno i festival italiani? E che differenze riscontri con quelli stranieri?
I festival hanno un’importanza assolutamente fondamentale. Penso che ci sia un’abissale differenza soprattutto per quel che concerne il circuito musicale italiano e quello europeo. Sia io che Marco Gallorini in passato abbiamo lavorato per l’Arezzo Wave ad esempio, e credo che quello sia stato un punto di riferimento fondamentale in Italia per tutti gli altri festival a seguire, non solamente italiani. Mi ricordo di un’occasione in cui c’era un’intera delegazione da Barcellona per studiarlo! Il Primavera Sound ad esempio è diverso perché dà spazio praticamente ad almeno un rappresentante di ciascuna nazione europea, qui in Italia purtroppo si fatica a fare un discorso così internazionale per tanti motivi. In realtà mi sono accorto che agli italiani piace molto ascoltare altri italiani, non sempre c’è questa voglia di internazionalità. Ci sono tanti festival, talvolta semi sconosciuti e meno organizzati, in cui spesso suonano le stesse band, e di rimando ci sono tante band che suonano moltissime volte in un posto nell’arco dello stesso anno. Quindi ecco, probabilmente c’è anche un po’ il discorso di dare alla gente ciò che vuole, giusto o sbagliato che sia.
Che ne pensi delle campagne di crowdfunding come finanziamento ai dischi?
Noi come etichetta non ci siamo mai avvicinati a questa strada, perché personalmente ritengo che sia una cosa poco elegante. Ogni uscita discografica per noi è una scommessa, e l’utilizzo del crowdfunding probabilmente toglierebbe impegno e poesia ad ogni disco. Quindi non la ritengo una strada percorribile per ciò che ci riguarda, ma bensì la ritengo un’opportunità per tutti quegli artisti che magari non hanno una realtà alle spalle che li supporti. Per fare un esempio, troverei poco sensato usare il crowdfunding per far ristampare un cofanetto dei CSI, lo troverei invece sensato se ad utilizzarlo fosse un assoluto emergente che vuole promuovere sé stesso ed il proprio progetto.
Qual è l’aspetto più duro del vostro lavoro e quale la maggiore soddisfazione?
Uno degli aspetti più duri è sicuramente il tempo che dedichiamo all’etichetta, ovvero circa venti ore al giorno. I ritmi sono estenuanti e molto spesso siamo chiamati a sacrificare gli affetti e le amicizie per il nostro lavoro. Ma d’altra parte c’è anche la soddisfazione di essere riusciti a fare di questa nostra passione per la musica un mestiere, che a fine mese ci dà uno stipendio, misero, ma ce lo dà! Senza contare naturalmente il fatto di essere riusciti ad attuare progetti musicali di artisti che noi riteniamo straordinari e che stanno avendo tutti riscontri più che positivi. Qualche tempo fa mi hanno detto: “Chissà quanto avrà pagato la Woodworm per far passare Truppi su Mtv!”… Ci siamo fatti quattro risate perché naturalmente non abbiamo sborsato un euro, a loro era piaciuto un pezzo di Giovanni ed in totale autonomia hanno deciso di passarlo. Questa, oltre che una soddisfazione, è anche una cosa che fa capire come i tempi e i meccanismi all’interno del mondo della musica stiano cambiando e come, ormai sempre più spesso, sia il mainstream a pescare nell’indipendente. Non è vero che quello musicale è un mercato che non funziona più, perché la gente viene ai concerti ed anche parecchio, si diverte e compra i dischi. Semplicemente è un mercato che andrebbe stimolato maggiormente, anche coinvolgendo di più le persone in determinati aspetti della musica che forse neanche conoscono. Noi nel nostro piccolo ci proviamo, e fino ad ora siamo molto felici e soddisfatti.
Francesca Amodio