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AC/DC Imola 2015, il racconto di chi ci è stato

Il racconto del concerto dell’anno. Gli AC/DC a Imola per uno dei live che scriverà la storia del Rock.

Quest’estate gli italiani si dividono in due categorie: quelli che hanno partecipato all’evento musicale dell’anno ossia il concerto degli AC/DC, e quelli che non hanno avuto lo stesso privilegio. Altre distinzioni hanno poca importanza alla luce dell’avvenimento che ha scosso l’estate nostrana: né il sesso, né l’età, né la classe sociale… ciò che ora distingue la popolazione italiana è l’aver preso parte o meno a qualcosa di unico.

Una serata curata nei minimi dettagli, dall’acustica, con otto torri delay che hanno consentito a tutti di poter godere di ogni singola nota, ai molti punti ristoro, dagli spazi sulla collina Rivazza, all’organizzazione del paese. Una città, Imola, che ha risposto in maniera impeccabile all’onore e all’onere di sostenere il peso di un concerto di tali proporzioni. Per una notte la città ha riscoperto i fasti degli anni dell’Heineken Jammin Festival, anni in cui Imola rappresentava il cuore pulsante del Rock in Italia.

Difficile descrivere il concerto, difficile esprimere a parole quello che i nostri occhi hanno visto, ciò che le nostre orecchie hanno udito, ciò di cui i nostri spiriti si sono nutriti. Perché nel live, nel rapporto diretto con i fan, gli AC/DC hanno pochissimi rivali.

Riecheggiavano ancora nell’aria imolese leggende sul concerto di Udine del 2010, l’ultima apparizione del gruppo nel Belpaese. Miti e racconti che altro non hanno fatto se non aumentare le attese, le aspettative, la voglia di puro rock ‘n roll.

Di fronte ad un palco di più di 1.000 mq, 92.000 privilegiati (anche se fonti non ufficiali parlano di numeri più elevati, causa i classici “imbucati” dell’ultimo momento) sono stati trascinati fin alle porte dell’inferno da un gruppo di quattro australiani che hanno lo straordinario talento di riuscire a caricare e far esplodere adrenalina nei corpi di coloro che si lasciano catturare dall’inconfondibile sound della band.

Mentre le ultime luci del giorno si spegnevano, una distesa di corna rosse attendeva con ansia e trepidazione di essere portata all’estasi dal suono made in Australia. Un centinaio di migliaia di moderni Dante sono stati traghettati da quattro figli di Caronte in un inferno costruito e modellato nel corso dei 40 anni di storia di una delle più amate rock band della storia.

Due ore di concerto, due ore di adrenalina pura, due ore di magia nelle quali il pubblico e la band si sono fusi in un unico corpo, cantando, accompagnando con mani e testa ogni suono, ogni nota emessa dalla geniale macchina musicale chiamata AC/DC.

Il gruppo, naturalmente, non ha deluso le attese, regalando tutti i più grandi successi della propria storia, riproponendo tutte le tappe fondamentali della loro esistenza, dalla più datata “T.N.T.” del 1974 alla più recente “Rock or Bust” (con la quale è stato aperto il concerto). Dall’adrenalinica “Back in Black” alla coinvolgente “Thunderstruck”, uno ad uno tutte le pietre miliari sono state eseguite, accompagnate dalla voce del pubblico che ha supportato il lavoro di Brian Johnson, creando un connubio unico ed emozionante.

Notevole anche il lavoro delle due new entry, Stevie Young, chitarrista nipote di Angus e sostituto di Malcom Young, ricoverato recentemente per gravi problemi di salute, e Chris Slade, batterista già noto al pubblico della band, che ha sostituito Phil Rudd (solo omonimo del compatriota Xavier) bloccato da guai con la legge.

Ma il vero mattatore della serata, colui che più di tutti ha pompato il sangue nelle vene del pubblico, è stato il piccolo folletto con le corna che risponde al nome di Angus Young. Fin dalle prime note si è capito che per lui il tempo è relativo. Partito con la classica divisa scolastica e la scoppoletta in testa, il genio della chitarra ha mostrato al pubblico che anche se gli anni passano, la leggerezza e velocità delle sue dita è rimasta intatta.

A poco a poco Angus ha abbandonato il classico costume che lo contraddistingue per finire il concerto, nel quale non ha avuto neanche un attimo di pausa se non tra un pezzo e un altro, a dorso nudo, coperto solo dal suo immenso talento. L’assolo di “Let There Be Rock”, durato più di quindici minuti è stato qualcosa di difficilmente eguagliabile, un’esternazione di puro, sano e potente rock ‘n roll.

A fine concerto, nonostante la stanchezza del viaggio, dell’attesa, delle due ore di salti e urla, rimane una sola certezza nel cuore dei 92.000 di Imola, quella di aver partecipato a qualcosa di epico, qualcosa di unico, qualcosa da dover raccontare ai propri nipoti la domenica dopo pranzo. E se è vero il rumour secondo il quale questo sarà l‘ultimo tour della band, allora a maggior ragione possiamo essere orgogliosi di aver assistito, di aver preso parte, di essere stati protagonisti dell’evento musicale del 2015.

   Matteo Artinghelli – Foto di copertina: Henry Ruggeri